GLI ALTRI CASSETTI

domenica 16 dicembre 2007

Caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale,
lo so che ti stupirai di ricevere la mia lettera. Forse un po’ t’incazzerai. Troppe volte mi hai sentita bestemmiare che tu non esisti e cose di questo genere. Siamo pari però: io ti ho ignorato e tu hai ignorato me. Da troppi anni non vieni a trovarmi. E adesso non pensare di cavartela con la solita scusa che non ho il camino! Se ce l’avessi dovrei bruciare un sacco di legna ché “questo è l’inverno più freddo che ci ricordiamo”. Ok ce lo dicono tutti gli anni. Che male c’è a crederci? In fondo abbiamo creduto anche a Berlusconi, a D’Alema, a Occhetto, a Craxi, a Veltroni, a Mastella… e ci ha fatto più male di un crepit
ìo inesistente.
Lo so che hai parecchio da fare in questi giorni, ma almeno tu hai gli elfi che ti dànno una mano. Non è che li costringi a straordinari massacranti e non remunerati? Certo, certo… dovrei saperlo che tu sei buono e saggio e che la tua fabbrica rispetta tutte le norme sulla sicurezza, che i tuoi elfi non lavorano in nero, che hanno uno stipendio dignitoso… Che vuoi farci? Vedo quel che accade in questo mio Paese!
Cosa? Dici che vorresti mandarci i tuoi elfi… Lascia perdere: gli extracomunitari qui non sono graditi, neppure quando si spaccano la schiena. Se almeno imparassero a morire in silenzio, senza fare troppo casino! E invece no, invece si permettono di cadere dalle impalcature in pieno giorno. Mica sempre è possibile nascondere il fattaccio! Qualcuno si permette, perfino, di parlare di diritti. No, guarda, lascia i tuoi elfi a casa loro ch’è meglio, qui siamo già troppi.
Io, per me, ti domando una cosa sola: concedimi di non abituarmi mai alle oscenità quotidiane e di continuare a indignarmi.
AUGURI A TUTTI.
CI RISENTIAMO IL PROSSIMO ANNO.

sabato 15 dicembre 2007

Randagi Cinque.


Randagi Cinque [file pdf, 392Kb]

Ciò che penso è che Randagi raccolga racconti belli, pensieri, sentimenti. Ogni volta che ricevo un nuovo contributo mi capita di entrare in un mondo di emozioni. Leggo. Mentre leggo mi domando: Li leggeranno anche gli altri?
Spesso in rete si “sente” che i racconti on line sono di difficile lettura, che i racconti troppo lunghi non sono adatti e blablabla… Ecco, io penso che siano stronzate. Scusate il francesismo e il poco adattamento al clima buonistico-natalizio, ma io, in questo periodo, sono ancora meno disposta a sopportare ogni forma di ipocrisia e ignoranza.
La storia della sintesi che, credetemi, per chi lavora in pubblicità è la storia di una vita, ha un senso se si parla di web in senso lato, di web finalizzato alla promozione di un prodotto: Esponi tutto in poche righe e convinci all’acquisto.
Quando si tratta di racconti è solo una di quelle scemenze che uno ha detto e tanti pecoroni lì dietro a ripetere, come se fosse Verbo. Quando si tratta di racconti, se sei uno abituato a leggere, se hai voglia di scoprire mondi e stili nuovi, allora li leggi eccome. Se non ne hai voglia è un’altra storia. Mi verrebbe allora, da domandarti: Che ci fai col tuo blog? due chiacchiere? Ma bello mio/bella mia va fuori, allora, ché dà tanto più gusto chiacchierare con la gente guardandola negli occhi.

Anche questa volta i racconti sono tre. Belli. Intensi.

Il ritorno, Annalisa Ferrari
Ines, Massimo De Nardo
Sembravano matti lì inginocchiati per terra, Stefano Sgambati

Scarica Randagi n. 5. I numeri precedenti si possono scaricare dalla sezione destra del blog. Per scaricare Adobe Reader, cliccare qui.

venerdì 14 dicembre 2007

Trecentocinquantamila voci inutili.

Mai ho considerato Beppe Grillo un guru. Eppure non posso accettare il tentativo politico di annullare le sue proteste, semplicemente, facendo spallucce e dicendoQuesta non è l’Italia di Grillo”. Mai erano state raccolte, in una sola giornata, trecentocinquantamila firme. Mai. Sono trecentocinquantamila voci che dicono Andate a…casa”. Trecentocinquantamila italiani che saranno ignorati perché, semplicemente, i politici se ne fottono. E non solo dei trecentocinquantamila. Perché questa non solo non è l’Italia di Grillo, questa non è l’Italia del popolo italiano.
Autosegnalazione:
su Arteinsieme, un mio racconto.

martedì 11 dicembre 2007

Libri letti in questi giorni.

L’acchito, Pietro Grossi.
Mi ha incantata. Tutto inizia da un acchito provato e riprovato fino a quando la palla non ritorna esattamente al punto da cui è partita. Le geometrie perfette del biliardo e le asimmetrie della vita. Nel biliardo, ma anche nella vita, la sfortuna non esiste. Se sbagli significa che hai tirato male.

Barbablù, Kurt Vonnegut
Attraverso l’autobiografia-diario di un’estate di Rabo Karabekian, armeno perché nato da genitori armeni e “affarista dell’arte”, Vonnegut traccia, con ironia frammenti della storia americana, ma anche dell’Italia di Mussolini. È un pittore Rabo Karabekian? No, è un fallimento come pittore. Ma quale pittore non è, almeno in vita, stato definito un fallito? Non lui, non Dan Gregory che dipinge il vero. L’arte? È arte l’astrattismo?
Ma non solo. Vonnegut in questo libro fa riflessioni interessanti sulla donna. No, non si tratta delle solite cazzate: Adesso tocca alle donne, dirà. Quando? Non ve lo dico, ovviamente. Ma traccia una cruda realtà di guerra. Di guerra e di donne. Con satira e ironia. E cosa ci sarà mai nel patataio di Barbablù?
Se non avete mai letto Vonnegut, iniziate da qui.

I silenzi di Joe, Fabio Della Seta.
Strazianti, taglienti, monologhi che sarebbero dialoghi se Lui rispondesse. Se almeno una volta Lui rispondesse. E invece ci lascia soli con le eterne domande che rimbombano nella testa e cercano risposte che Lui non dà. E che ci formuliamo da noi, ché, forse, alla fin fine, Lui non c’entra.

Sto leggendo Il diario di Jane Somers, Doris Lessing. Non l’avevo ancora letto. Man mano che vado avanti mi sento ignorante per non averlo “scelto” prima. Mi spiace che ci siano vari errori di battitura che denotano poca attenzione nella trascrizione e revisione.

venerdì 7 dicembre 2007

No al minuto di silenzio.

No al minuto di silenzio per i morti sul lavoro.
No al minuto di silenzio per i morti di mafia.
No al minuto di silenzio per i morti di guerra.
No al minuto di silenzio per le donne stuprate e massacrate.
No al minuto di silenzio per i bambini vittime di pedofilia.

No al minuto di silenzio…

Si stanno accumulando tempi di non condivisibile ipocrisia.

domenica 2 dicembre 2007

Quel che mi piace scrivere. Un nuovo racconto. Libri letti e "i tradimenti di Remo".


Mi piace scrivere di cose vere, che mi accadono attorno e che non riesco a non fermare sullo schermo. Questo è quello che voglio fare. Perciò, da oggi apro una nuova sezione: Racconti tratti da storie vere. Il primo è questo: versione web versione pdf.



In questi giorni ho fatto tante cose e letto molto. Ad esempio:

La donna che parlava con i morti, di Remo Bassini, che romanza il nostro Paese tracciandone, attraverso gli occhi di Anna Antichi (semplice commessa in una libreria o investigatrice privata?) un quadro fra il realistico e l’esagerazione, dove però l’esagerazione non è una debolezza dello scrittore, ma, al contrario, l’attenzione che Bassini ha verso il comune scorrere delle “cose che accadono” nelle vene degli italianissimi personaggi.


Questa Anna Antichi, - pensavo man mano che leggevo - non mi piace per nulla. Certo, anche io, da bambina, sognavo di fare la poliziotta o l’investigatrice privata ché leggevo tanti gialli allora. Però questa donna che se ne va in giro a sproloquiare “cazzi” e “battute su culi e tette”, proprio non mi piace. Questo pensavo e non sopportavo il suo amore così remissivo, così accondiscendente. Eppure Anna Antichi è il ritratto della maggior parte delle donne: confuse fra l'odor vago di femminilità e una parità che allocano nel linguaggio “cazzuto”. Anna Antichi, piano piano, mi ha conquistata con la sua forza fragile che, man mano perde la fragilità e non si nasconde più dietro al luogo comune, dietro alla caricatura dell’uomo, ma acquista tutta la sua concretezza di persona. Bella lettura.
Sul tradimento.
Vi è un tema ricorrente nei tre libri di Remo Bassini che ho letto (Il quaderno delle voci rubate, Dicono di Clelia, La donna che parlava con i morti): il tradimento ha una sfaccettatura che “tradisce” il comune sentire. Non lo vede, lo scrittore Bassini, come tradimento verso l’altro ma come tradimento verso i figli. Un tradimento che crea fratture profonde nel traditore: ne “Il quaderno delle voci rubate”, Giuseppe Valletti, molestatore, si suicida lanciandosi sotto un treno merci, per non affrontare lo sguardo di suo figlio di 12 anni; ne “Dicono di Clelia”, il dottore sarà il papà-carogna di una adolescente che lo ha sorpreso con una donna diversa da sua madre e che non si toglierà quell’immagine dagli occhi; ne “La donna che parlava con i morti”, Mario Tasti perderà ogni rapporto con il mondo esterno per aver provocato il suicidio del figlio che lo aveva sorpreso con una delle sue giovani conquiste.

La sovrana lettrice, di Alan Bennett, che consiglio a lettori attenti, scrittori e aspiranti tali (…La mattina dopo Sua Maestà aveva il naso chiuso ed essendo libera da impegni disse che rimaneva a letto perché sentiva i primi sintomi dell’influenza. Non era da lei e non era neanche vero; ma così poteva continuare a leggere il suo libro. «La regina ha un leggero raffreddore» fu la notizia ufficiale comunicata alla nazione. Non lo sapeva nemmeno Sua Maestà, ma quello fu il primo di una serie di compromessi, non sempre di poco conto, che la lettura avrebbe comportato…).
Una nota di merito è di Ilaria, verso Ehibheln non lo sa, di Laura Costantini e Loredana Falcone. So che ha deciso di scriverne e quindi non aggiungo altro.


martedì 20 novembre 2007

Amare considerazioni.

Sono stanca, non mi sento molto bene, rientro adesso da due giorni a Torino, domani devo essere in agenzia alle nove per ripartire ancora fino a venerdì. Non avrei voglia di scrivere, ma di andare a dormire. Potrei farlo ché non campo di blog e, devo dire, che da quando ne ho uno, mi è capitato più volte di indignarmi che di rilassarmi. Potrei farlo, ché – ha ragione Elena (la lettrice di blog) – scrivere non è un obbligo. Tantomeno lo è pubblicare e questo l’ho sempre sostenuto a costo di impopolarità, perciò mi spiace, per esempio, leggere su Linguaggi e Parole che io avrei proposto di pubblicare Randagi attraverso lulu.com, quando dal mio post e dai miei commenti si evince, facilmente, esattamente l’opposto.
Sarò chiara e franca.
Randagi resterà esattamente ciò che è: una raccolta on line. Fare la rete non significa “pubblicare a ogni costo” e pubblicare con lulu.com e con qualsiasi altra forma di Editoria trasversale, per quanto mi riguarda, è “pubblicare a ogni costo”. Alimentare questa forma di editoria non significa dare spazio a nuovi talenti, ma imbastardire ulteriormente il già sovraffollato mercato della scrittura, e penalizzare ancora (qualitativamente ed economicamente) i lettori. Fare la rete significa pubblicare contenuti interessanti attraverso la rete e contribuire alla loro diffusione: se Randagi ti piace lo linki. È scaricabile in pdf che vivono di vita individuale, non serve neppure linkare il mio blog (non sono afflitta da sindrome da clic).
In privato uno scrittore che stimo molto mi scrive “sono lontano anni luce da questo tipo di pubblicazioni”. Condivido pienamente. E fino a quando non saranno in molti a condividerlo ci sarà, inevitabilmente, di che indignarsi sui blog. Quasi tutto, oscenamente, ruota attorno al sapore di sé e attorno al bisogno/desiderio di pubblicare su carta. Pubblicare qualsiasi cosa. Pubblicare con chiunque. E quando qualcosa di buono viene pubblicato ecco che ci si scaglia contro. La pubblicazione di Sappiano le mie parole di sangue, da parte di un Editore come la Rizzoli, avrebbe dovuto essere un risultato comune, una conquista di quel valore tanto osannato che è l’interessamento da parte della grande editoria verso la “letteratura di qualità”. Invece no. Pubblicando con la Rizzoli, la Jones è automaticamente uscita dal ghetto. Tagliata fuori da un sistema che ci vuole inevitabilmente perdenti. Uniti dal dolore e dallo strazio di non essere compresi. Mal comune mezzo gaudio. Ma io non vedo alcuna forma di gaudio, né più provo piacere nello scrivere sul blog giacché i post che ritengo più belli, sono quelli che passano inosservati. E non solo qui. Scrivere di un libro, scrivere che un libro ti è piaciuto, che "ti ha dato”, che “ti appartiene” è nocivo per lo scrittore, a meno che non si tratti di un classico che, di suo, rientra nella sfera culturale dell’intellettuale. Questo è inaudito. Questa è oscenità. Ci si divincola fra un sapore vago di letteratura e un sapore amaro di squallide invidie e scontri che si fanno ostracismo. Si formano piccoli gruppi virtuali in cui ci si alliscia e ci si struscia nella speranza di essere allisciati e strusciati e raggiungere, prima o poi, l’orgasmo della citazione o del link multiplo esponenziato. Indignarsi per tutto ciò non è dato. A indignarsi si resta fottuti. Fottuti da chi? da chi?
Sono stanca, ho la febbre e domani devo comunque partire. In ogni caso, penso che, per un po’, starò lontana dal blog. Almeno fino alla prossima uscita di Randagi on line.

{commenti chiusi}

domenica 18 novembre 2007

Randagi: rimetto a voi i nostri debiti quotidiani. Amen.

Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail da Francesco Giubilei:

Salve, mi chiamo Francesco Giubilei.
Sono il direttore di
Historica
e vorrei farle una proposta.
Ho letto tutti i numeri di Randagi.
Ha mai pensato di farne un'antologia?
Potrebbe pubblicarla con Lulu.com attraverso
Historica Editrice
Mi faccia sapere.
Saluti
Francesco Giubilei
Randagi nasce come antologia on line, con lo scopo ambizioso ma nello stesso tempo umile, di raccogliere “cose buone dalla rete” e con l’idea di essere veicolata sul web, attraverso link non necessariamente al mio Blog: tutti i numeri sono scaricabili in pdf che vivono la loro vita anche individualmente. L’impaginazione è da libro, con tanto di cover e di gabbie di testo, per facilitarne la lettura, la stampa individuale e – perché no? – la raccolta dei fascicoli. Non ho mai pensato a un’eventuale pubblicazione, probabilmente perché non afflitta da tale velleità. L’ansia da pubblicazione, che aleggia sul web, la vivo, personalmente, come terreno di lotte intestine fra un esiguo gruppo di persone che ancora non hanno capito che un centinaio di bloggers [che se la raccontano e se le suonano fra di loro] non dànno notorietà.

Questo lo penso io, però. E Randagi non è “mio”: è di tutti coloro che hanno inviato e inviano un proprio racconto. Perciò propongo di discuterne assieme.
Ringrazio, comunque, Francesco Giubilei per l'attenzione.
(Naturalmente gli ho chiesto l'autorizzazione a pubblicare la sua e-mail.)

sabato 17 novembre 2007

Michele, il dolore, il divertimento: i volti della mafia.

Stanotte ho sognato Michele. Non mi era ancora capitato di sognarlo da quando è morto. Avevamo entrambi ventotto anni, quando è salito su un’auto da cui non è più sceso. Quindi sono trascorsi dodici anni senza che il mio inconscio lo rievocasse. Eppure ci penso spesso a lui. Per esempio mi viene in mente il giorno che ogni adolescente attende con un’ansia che poi non ti spieghi: il mio diciottesimo compleanno. È sempre stato bello, Michele, ma quel giorno lo era più del solito e fece strage di cuori adolescenti. “Tuttomoto” lo chiamavano, Michele, ché adorava correre sulla sua moto e leggere l’omonima rivista. Un vezzo poco usuale fra quelli della mia specie. Non la moto ché faceva figo [togo, dicevamo noi ché anche nel linguaggio cercavamo una nostra identità], ma la lettura, figurarsi abituale, di riviste specializzate. Era popolare, Michele. Ed è nato, come me, in terra di mafia rurale che ha trovato l’unica evoluzione possibile nell’eroina. E all’eroina faceva gioco la popolarità di un adolescente. L’eroina lo reclutò dapprima fra i soldati dello spaccio, poi, inevitabilmente, nella fanteria dei visitors, così li chiamavano quelli della mia specie gli eroinomani che si sbattevano dal mattino alla sera per una dose. Michele è morto senza che nulla di lui ricordasse la sua bellezza. Prima e dopo di Michele sono morti: Giuseppe detto Peppe, Anna Lucia detta Sciusciù, Giuseppe detto Spinello, Gianni detto Il Torinese, Carmela detta Caccà, Concetta detta Oncetta. Sono usciti dal tunnel, così chiamavano il complesso circuito medico-mafioso dell’eroina i media: la Peppa, Tizzone, Frufrù.
Ci sono stati tanti, tantissimi, Peppe, Scisciù, Spinello, Il Torinese, Caccà, Oncetta e qualche Peppa, Tizzone e Frufrù negli anni a venire.
Mi sono passati davanti agli occhi quando facevo volontariato al Sert. Li ho visti urlare e li ho sentiti darmi della puttana se non gli davamo qualche "dose" di metadone da portarsi via. L’alternativa legale al furto, alla prostituzione, al facile espediente del delinquere occasionale. Li ho visti morire di Aids, talvolta.
Poi non li ho visti più.
Poi l’eroina è scomparsa e i Peppe, Scisciù, Spinello… si sono trasformati in paninari con i piedi infilati nelle Timberland e le narici piene di polvere bianca. Le logiche di mercato, la mafia le applica prima di ogni manager del marketing: l’eroina provocava una dipendenza troppo evidente, la “scimmia” era dolorosa e il dolore difficilmente trova un mercato a meno di non trasformarlo in credo religioso, come insegna il marketing della chiesa. La massificazione dei rapporti internazionali, contemporaneamente, facilitava l’ingresso della cocaina attorno alla quale, inconsapevolmente [?], media e informazioni mediche avevano creato l’alone di “santa non dipendenza” oltre a uno “status” corrispondente al “ricco”, al “vip”, al “bello-ricco-dannato” che si accompagnava ai nuovi contenuti veicolati attraverso i mezzi che, parimenti, privilegiavano la bellezza, la ricchezza, l’esagerazione in tutto.
Al dolore la mafia-marketing ha sostituito il ben più allettante divertimento. E mentre si sviluppavano contenuti da vuoto pneumatico e si spogliavano, sempre più, le donne in televisione, si alzavano i volumi nelle discoteche e si insonorizzavano le pareti per consentire di andare avanti col divertimento ad libitum, supportando la pur sempre umana resistenza con pillole magiche, ché anche nell’alchimia la mafia è maestra. E non va sottovalutato il ruolo della psico-mafia, con un osservatorio fra i migliori al mondo in materia di anticipazione delle tendenze; né della info-mafia, in grado di veicolare messaggi che promettono divertimenti certi, mascherati da cronaca nera; né della recluto-mafia capace di assoldare poveri cristi che nulla più hanno da perdere giacché hanno già lasciato quel poco che avevano, le radici, in un “altrove” che non esiste più o forse non è mai esistito.

giovedì 15 novembre 2007

125 pagine di speranza per Gramos

In questi giorni vi sono state varie discussioni su problemi, rete, coraggio, razzismo
Ciò che ho sempre sostenuto, ciò che cerco di insegnare a mia figlia, è che cambiare le cose è possibile: bisogna iniziare a cambiare quei pochi centimetri quadrati di spazio che occupiamo. Spazio del fisico e dell’intelletto. Il cambiamento inizia da noi. Sempre e inevitabilmente.
Uno di questi cambiamenti lo abbiamo vissuto giorno per giorno: inizia con una voce che si alza dal coro della banalità e pronuncia un nome: Benito (che nulla ha a che vedere con “quell’altro”) e poi ne pronuncia un altro: Gramos.
E continua con un progetto: Le fiabe di Gramos.
C’è un presupposto nella mia vita (condivisibile o meno, non è importante, non qui non adesso): un progetto è meglio di un sogno. Per un progetto si lavora e ci si mette in gioco. Così è stato per Sabrina Campolongo. Ci ha creduto, ci ha chiamati a partecipare a un “concorso” che ha surfato fra le aspirazioni di molti bloggers con intelligenza, creando contenuti e non dissapori, creando gioia (parola banale, ma quanta ce ne vorrebbe di questa banalità?), e alla fine dando vita a un libro che nasce con un obiettivo importante: aiutare un bambino ad assicurarsi il suo naturale diritto a un altro giorno.
Un obiettivo che custodisce in sé il sapore amaro della povertà, dell’emarginazione, della sofferenza e il sapore buono della speranza. Nascono con molte responsabilità queste 125 pagine.

LE FIABE DI GRAMOS
Per acquistarlo clicca qui.
€ 11,00 - Tutti gli autori hanno rinunciato ad ogni diritto economico a favore di Gramos.

La presentazione di Remo Bassini:

Tu che mi leggi, ti prego, ascolta. Questo libro è un libro di fiabe, certo, come tanti. Più bello o più brutto, chissà. Non importa, non è questo il punto. Ti ho chiesto, per favore, di ascoltare. Sono un libro ma, dentro di me, c'è una voce che, purtroppo, è un lamento. É di un bimbo piccolo, si chiama Gramos. Lotta per la vita come un eroe. Ascoltalo. Ti sta dicendo Ciao, mi chiamo Gramos, vorrei ridere e giocare ma non posso. Ti sta dicendo Aiutami. Ti sta dicendo anche Ho una brutta malattia, ho paura. Ti sta dicendo Sei gentile a comprare questo libro che altre persone gentili hanno scritto e di cui migliaia di persone gentili, su una cosa chiamata internet, han parlato. Lui è Gramos. É un bambino. Vivrà grazie a tutti voi. E un po' anche a me, che sono solo un piccolo libro contro l'indifferenza.

Le donazioni saranno gestite dall'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Chi si occupa di questo caso è l'Associazione S.o.S. Infanzia nel Mondo Onlus, Via Stazzo Quadro, 52, 00060, Riano (Roma). Chi volesse fare una donazione: c/c bancario 3383 o 3385 Banca di Credito Cooperativo di Riano - abi 08787 cab 39350 cin X. Ricordate la causale: PRO GRAMOS. Se volete maggiori informazioni per la trasparenza o solo per conoscere meglio la storia di Gramos chiamate Miriam (349.1953550) o Antonella (333.9382824) oppure scrivete a: sosinfanzianelmondo@tiscali.it.



mercoledì 14 novembre 2007

A proposito di rete. Ma soprattutto a proposito di coraggio.

Io, talvolta, vedo nessi che altri non vedono. È un mio pregio e un mio limite. Eppure ci sono – mi dico. Ecco, a proposito di quanto ho scritto e avete scritto sul post precedente e a proposito di quanto si è scritto sulla già citata riflessione di Remo Bassini e del suo commento:

«Alla fin fine, io in rete vedo più scontri tra bande e voglia di mettersi in mostra che nella vita reale. Affiorano, anche in rete, dolori, depressioni, storie di vita e di morte. Ma in rete c’è soprattutto un folle connubio. Riemerge la nostra onnipotenza infantile, credo. Che si salda alla sacralità della parola scritta. Dietro il pc possiamo fare tutto. Anche scagliare la nostra ira e le nostre invettive a chi non la pensa come noi.»

Dicevo: mi è venuta in mente una bella discussione con Orasesta (T.) nei commenti ad un altro mio post che non serve citare perché non è importante: le riflessioni sono trasversali al post. Ciò che ne emerge, credo, è la differenza fra arroganza e coraggio, anche in rete.

Eccola:

ORASESTA: (…) Ecco, questo è un punto che ultimamente - in altre discussioni, anche - mi ha turbato. Ripeto, indipendentemente dalla persona e dal "caso", se vuoi, diciamo che "generalizzando" ritengo incompatibile con una qualche responsabilità che un intellettuale (abbiamo il coraggio, per la miseria, di usare non la parola ma il concetto benché difficilmente definibile!), dicevo, ritengo incompatibile con il ruolo di un intellettuale dire di avere il coraggio per affermare cose che sono nel più diffuso senso comune, fin dentro le "chiacchiere da bar", aderendo ad una "fotografia" falsa (falsificata) della società, anzi rafforzandola. Chi lo fa, contribuisce a creare un immaginario di "accerchiamento" da parte di un "nemico" o quanto meno avversario nelle cui file potremmo essere collocate io, tu...Ma dimmi se è "intellettualmente onesto"?!

ASSU: (…) Come te, sono convinta che il coraggio sia qualcosa di diverso dall’esprimere pubblicamente stereotipi, luoghi comuni e pensieri variamente diffusi che si annidano nelle menti delle masse, pronti a emergere/riemergere alla prima goccia di rugiada. Se così fosse, dovremmo ritenere coraggiosi i personaggi alla Sgarbi che animano le trasmissioni televisive. Chi lo fa – talvolta inconsapevolmente, spinto dall’innocente convinzione di essere un cuor di leone o, semplicemente, in questo “nuovo” contesto, dal fatto di non conoscere le dinamiche di Internet che ancora soffre lo strazio dell’anonimato - non consente una sana evoluzione dei pensieri. Crea intercapedini vuote fra una fase e l’altra della discussione. Bolle d’aria che non si riempiranno mai di contenuti e che presto o tardi ritorneranno. E, come dici, contribuisce a creare quell’immaginario di “accerchiamento”, giacché l’atteggiamento di chi si rifiuta di lasciare incastrato il dito nella piaga è visto come ostracismo e non come salto di qualità. Peccato!

SF: Perché credete che il coraggio debba avere a che fare con gli intellettuali?

ORASESTA: Anche l'edicolante (chiacchierone...) sotto casa mia esercita un'influenza su coloro che intrattiene con le "notizie del giorno".Coloro che - più o meno professionalmente - svolgono un'attività che è finalizzata alla "manipolazione" del sapere o dell'immaginario altrui, forse hanno qualche responsabilità in più. Ho tentato di dire che ritengo irresponsabile da parte di costoro far apparire "coraggioso" ciò che in realtà è di assoluto "senso comune".Dando per acquisito (ma forse a volte così non è?) che abbiano (che abbiano i mezzi per avere) una visione oggettiva, acuta per il "particolare" e sintetica per il "generale"; che abbiano (che possano, debbano avere) una maggiore consapevolezza nel maneggiare un materiale delicato come sono le parole.

ASSU: Tempo fa, lessi una citazione attribuita a Giacomo Leopardi: chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo. Non so, in tutta onestà, se sia o meno di Leopardi, non ricordo di averla trovata personalmente. In ogni caso, parto proprio dal coraggio di ridere per andare più a fondo. Si sentono spesso espressioni come: il coraggio di dire, il coraggio di fare, il coraggio delle idee, il coraggio di vivere, il coraggio di dire basta, il coraggio di dire no, eccetera. Come se tutto quello che facciamo debba, per forza, essere supportato da “coraggio” e senza questo attributo non vi sia alcuna forma di riconoscimento. Io trovo molto interessante la questione posta da Orasesta perché penso che sia necessario scernere e fare chiarezza fra ciò che è quotidianità intellettiva e ciò che è riflessione intellettuale. La prima, a mio avviso, si inscrive nel processo di comunicazione quotidiana (salutare la signora del piano di sopra, osservare i movimenti ripetuti e famigliari delle persone che incrociamo nel nostro percorso abituale, fermarsi a comprare il giornale, scambiare qualche parola con l’edicolante o con la commessa del negozio sotto casa, dire buongiorno entrando in ufficio, accendere il computer, leggere la posta e rispondere, eccetera); la seconda, invece, pur non discostandosi da ciò che è quotidianità, si eleva a un gradino più alto, e si pone domande sul perché delle cose e delle azioni. La riflessione è propria dell’intellettuale ed è, a mio avviso, l’unica vera forma di coraggio, sempre che il risultato non sia il mero rimuginare. In questo senso l’intellettuale è chiamato a svolgere un ruolo di ponte fra ciò che è luogo comune e ciò che è frutto di un pensiero più attento che va oltre la banalità del quotidiano e si spinge alla formulazione di idee proprie che pur partendo da una radice in comune con il pensiero quotidiano è capace di maggiore elaborazione e di indurre a sua volta alla riflessione.

ORASESTA: Il coraggio come "propensione", "tensione" cioè "tendere a..." Che poi viene da "cuore", se non sbaglio. Dal cuore dove spesso "poeticamente" collochiamo i segni distintivi della nostra umanità.Bello. Evochi una figura intellettuale che abbia a che fare con il cuore. Mi piace assai.

martedì 13 novembre 2007

Io non ho problemi.

Oggi, al bar, due uomini e una donna, tutti sulla quarantina o giù/su di lì, forse amici a giudicare dal tono confidenziale, discutevano circa la misurabilità di un problema.
Non esistono problemi grandi e problemi piccoli. Esistono problemi. Se uno sta bene di salute e di soldi, vivrà come enorme il problema dell’auto ferma per due giorni, in riparazione -
afferma il più alto dei tre, con un cappotto blu chiuso su una giacca dal taglio moderno ed elegante, come si intuisce dal modello dei pantaloni grigio scuro che coprono fino a mezzo tacco la scarpa di pelle morbida.
L’amico biondo ha una faccia nordica, la pelle è cotta dal finto sole delle lampade. Sciorina un nome che non colgo a sostegno della sua teoria: Ognuno misura i problemi secondo le sue esperienze.
La donna ha due occhi azzurri che catturano l’attenzione. È bella, ma i suoi occhi lo sono molto più di lei. Nonostante i tacchi è molto piccola di statura. L’atteggiamento è da bambola, la voce no. La voce è limpida e il tono deciso. Non pigola – penso – rispondendo a me stessa ché m’ero fatta l’idea di una vocina impostata da bambina. Io non ho problemi – dice con sicurezza.
Io non ho problemi. Mi sono portata con me quell’affermazione. Quanti sanno dirlo?
Poi, stasera, leggo questa riflessione di Remo Bassini.
Penso che i problemi siano misurabili oggettivamente. Vi sono grossi problemi e piccoli problemi, solo che non ce ne rendiamo conto quando il macigno pesa sulle nostre teste. La misurabilità soggettiva del problema è espressione dell’egoismo e dell’incapacità di guardare l’altro, di rispettarlo. Solo la morte ci ammorbidisce, ché la morte è spazzina, ché la morte ci fa paura.

giovedì 8 novembre 2007

Cose di questi giorni.

A me Torino piace molto. Neppure la stanchezza per riunioni estenuanti è riuscita a togliermi il gusto delle luci artistiche che si sono accese contemporaneamente alle 19.30 del 6 novembre. Neppure il mio tentativo di impegnarmi e auto-sensibilizzarmi verso il risparmio energetico. Solo un velo di malinconia per la morte di un giornalista che, al di là del colore politico, rappresenta un grande esempio di giornalismo libero. E la speranza che tutto il coccodrillame di questi giorni non si esaurisca nella sola nota di rimpianto. Utopia? Forse sì, ma talvolta non resta che quella per dare carburante alla speranza.

Sto leggendo “Baffi di Cacao” di Lina Dettori, nota ai blogger come Eva Carriego. L’ho già scritto e lo ripeto con convinzione: Eva sei brava. Del libro, vi parlerò quando avrò finito di leggerlo e lo finirò presto ché il fiato è sospeso sin dalla prima pagina, e l’apnea non lascia spazio a distrazioni. In questo momento sono sulla soglia di una porta, col ferma-immagine su un pugno ben assestato, e sto vagando in un tempo che sfida il tempo, in un intreccio di personaggi che già mi appartengono.

Qualche riflessione sull’editoria, sui nuovi scrittori, su nuovi canali di distribuzione si fa strada. Forse ne parlerò. Forse no ché è già tema abusato.

Stamattina, a Cuneo, esco dall’Hotel e mi ritrovo in una strada diversa da quella di ieri sera. La stanchezza e la notte nascondevano una familiarità con l’Emilia che amo, con quei portici bassi di Bologna soprattutto, ma anche di ogni città emiliana e della mia Parma. Mi manca, Parma. Me ne accorgo quando sono soprapensiero. Nello sfondo, a destra del mio sguardo, le Alpi. Nitide.
Su Arteinsieme, il sito di Renzo Montagnoli che riunisce molti autori in un variegato intreccio letterario, il mio racconto: Brindisi. Lo definisco racconto perché non vi è un modo letterario diverso per descrivere uno stato d’animo, la preghiera, l’urlo, la rabbia.

Sempre su Arteinsieme, l’intervista.

lunedì 5 novembre 2007

Femminilità: il packaging delle nuove bambine.


[Dedico questo post al coraggio di Emilia.]

Lo so che ne ho già parlato, però oggi, in un intermezzo inatteso (pausa pranzo che in genere salta) ho rigirato fra le mani e risfogliato il libro che ho finito di leggere ieri sera. Le parole son venute da sé, spalmate sul portatile acceso. Non è nelle mie abitudini recensire libri, e neppure questo post è una recensione. Seguo i miei pensieri e li confronto: è questo il mio rapporto coi libri.

Ancora dalla parte delle bambine
, ripropone, in una chiave giornalistica sì, ma con una riflessione personale che mi è piaciuta molto, la condizione attuale della bambina e della futura donna che diventerà. Oggi. Uno spaccato sulla differenziazione dei generi, che mai come adesso, non smetterò mai di scriverlo, produce un fraintendimento fra valori propri e desideri indotti. Loredana Lipperini, però, è andata oltre, ponendosi quella domanda che più volte ho posto: di chi è la colpa: dei media?, del marketing?, della pubblicità? Odio profondamente la parola colpa. La odio perché è dura, perché ti trafigge subdolamente come la lama di un pugnale affilato: taglia la carne in un lampo, e il dolore lo senti solo quando il pugnale si ritrae, con la consapevolezza dello smembramento di vene, di muscoli, di tendini… Eppure vi è colpa se oggi [più che in passato] le donne confondono la mercificazione mediatica del loro corpo con la libertà di essere se stesse. Una colpa che non può e non deve essere attribuita al canale di distribuzione, quanto a chi fa i contenuti, a chi li immette in un circuito che sempre più abbassa l’età del target, traballando continuamente fra il sapore di figa e la cenerentolità femminile. Basta leggere le interviste che vengono fatte agli uomini e quelle che vengono fatte alle donne: agli uomini si domanda di politica, di lavoro, di velocità e agilità; alle donne di amori, di leziose visioni della vita, di abilità (che è diversa dall’agilità) e di esprimere qualche piccola cattiveria. [La ricetta è servita. Format lo chiamiamo noi brutti e cattivi della pubblicità.] E va attribuita a chi questo lo consente e a chi resta inerme [vittima, si dirà] e si rifugia, sovente, nel “non sono tutti uguali”. Non sono tutti uguali chi? gli uomini? Convengo, ve ne sono di illuminati, sebbene anche loro, in fondo, subiscano il fascino di una femminilità grintosa che il più delle volte naufraga nella libertà sessuale intesa come facilitazione della caccia, nell’accettazione “prone” di una caduta del femminismo, nella complicità che dà ragione alla loro innegabile [?] superiorità, foss'anche solo fisica. Se gli uomini non sono tutti uguali, ne deriva forse che lo siano le donne? Tutte uguali come? Tutte puttane? No, è finita, secondo me, anche l’epoca di quello stereotipo, sebbene, ancora, qualche conservatore, tiri fuori a difesa del genere l’asso nella manica: Se parli così allora ti posso rispondere che tutte le donne sono puttane. No, non mi puoi rispondere così per due motivi: il primo è che se t’incontro e me lo dici a due centimetri dal mio naso ti spacco la faccia; il secondo è che sai benissimo che non è vero e quindi non fare lo stronzo e usala questa cazzo d’intelligenza che tutti i sondaggi e le statistiche attribuiscono al genere maschile!
Il dato principale è che siamo “tutti uguali”, ma differenziati per genere. Però nella differenziazione vi è un’intesa perfetta: quel buco è prezioso, per gli uomini e per le donne. E allora la pubblicità che fa? Ci analizza, ci conosce, ci riflette. La pubblicità “lo sa”, come ho già scritto e come meglio scrive Anna Maria Testa in una delle varie testimonianze che si trovano in Ancora dalla parte delle bambine. Lo sa e cavalca l’onda per assolvere al suo compito che non è sociale-educativo ma puramente commerciale: vendere. Vendere a chi è già convinto di essere inscritto in quel target. Non riuscirei a vendervi un sapone se non foste già convinti del bisogno di lavarvi, non riuscirei a vendervi “quel” sapone se non foste già convinti della necessità di mantenere bella, giovane e tonica la vostra pelle.
Non riuscirebbe, la pubblicità, a vendere sesso se non fossimo già convinti che quel buco è prezioso. Una preziosità che la Chiesa chiama maternità, ma non lacera e non sporca nella Sempre Vergine Maria, e di cui consente il possesso a un solo uomo. Una preziosità laica che si fa mezzo: vascello per migliaia di informazioni devianti che lasciano alla donna il solo spazio della femminilità: packaging indispensabile, il più possibile lustro e remissivo, di una remissività che non è più obbedienza ma presunta convinzione di scelta. Sono convinte, le donne, che non sono gli uomini a usare il loro corpo, ma, al contrario, loro stesse a servirsene (giacché ce l’hanno ed è così prezioso che serva alla donna!). Hanno anche un cervello – oramai non è più contestato – però è essenziale che non si dimentichino del corpo. Sarà quello ad assicurarle il futuro sia esso professionale o amoroso. Il buco è mio e lo gestisco io, scrivevano sui muri le femministe. Peccato che sia stato gestito secondo il format maschile.

In un commento al precedente post “La parola al sesso forte”, ho scritto, a proposito di un pezzo indicato e ritenuto, da donne e uomini, lo specchio della femminilità, che non lo condivido, per quanto scritto bene. Non lo condivido perché sono proprio questi contenuti, mutuati da una letteratura ghettizzante, ad accrescere la convinzione, nella bambina, che la cura della casa, dei figli, del proprio uomo nel quale rispecchiarsi al risveglio e dal quale ottenere parole di plauso e gratificazione “personale” [?], siano il proprio destino, inscritto in quella formidabile invenzione maschile che è la femminilità.

Smettiamola, vi prego, di farci convincere che il mondo rosa dal quale abbiamo cercato di tirarci fuori, sia, in realtà, tutto quello che desideriamo. Il libro leggetelo: per molti potrebbe essere l’inizio di una riflessione, per altri – come nel mio caso – si potrebbe consolidare la certezza dell’esistenza di altre donne (e uomini) che vanno al di là di tette e culi, pur avendoli. Troverete molte citazioni di altri libri: una bibliografia che, se non altro per amore di confronto, vi suggerisco. Fra tutti, come ho già, varie volte, ripetuto: Il secondo sesso. Troverete anche molti website e blog. E testimonianze interessantissime (non solo di donne).

Ancora dalla parte delle bambine: leggetelo, spegnete la televisione e discutetene con le vostre bambine e i vostri bambini (anche con loro).

domenica 4 novembre 2007

Il quarto numero...


…di Randagi, ovviamente.


Sono di fretta, domani parto e starò via tutta la settimana.

Anche in questo quarto numero tre racconti di tre bloggers:
Jane Bowie: Peneleope è partita, Penelope è tornata.
Sabrina Campolongo: Nessuno è entrato.
Diego D’Andrea: La ballata dell’uomo nuvola.

Randagi#4 è
scaricabile in formato pdf (338Kb) sia direttamente dal post, sia dalla colonna a destra.

L’invito, come sempre, è a cliccare, scaricare, visualizzare, stampare o no, in ogni caso a leggere i racconti.

I numeri precedenti:

Randagi#1, con i contributi di Remo Bassini, Babsi Jones, Assunta Altieri
Randagi#2, con i contributi di emi, Eva Carriego, Renzo Montagnoli
Randagi#3, con i contributi di Beppe Sebaste, Cinzia Pierangelini, Ilaria Ubaldi

Accogliendo il suggerimento di Renzo, da oggi inserisco nel post di “lancio” anche i sintetici profili degli autori. Aggiornerò l'elenco appena avrò un attimo.

mercoledì 31 ottobre 2007

La parola al sesso forte.

Proprio non mi riesce di intascare indifferentemente la notizia: un’altra donna violentata e massacrata di botte; quanto fa? cinque, dieci, venti? E ci sarà pure un corrispondente numero da giocare al lotto, secondo me. Non sono ferrata in materia, ma volete che non ci sia? Suvvia!
Sì, torno a parlare di donne e ci tornerò ancora e ancora, fino a quando avrò un filo di voce e una tendinite fulminante non m’impedirà di schiacciare lettere sulla tastiera. Io provo rabbia. E provo vergogna per questi uomini che fanno della sicurezza dei cittadini un altro baluardo politico. Prima era l’Islam, ora sono i rumeni. Qui non si tratta di provenienza geografica, ma di uomini e donne che non si riconoscono ancora la medesima qualità di persone. E allora lo domando agli uomini: cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per farvi entrare nelle teste che non siamo solo un buco con un po’ di curve attorno? Mi pare che non abbia funzionato il sistema di ammantarci con veli e burka, dobbiamo forse rispolverare le cinture di castità e buttare le chiavi nell’oceano? Che cosa dobbiamo fare? Iniziare a fare a botte da adolescenti sì da temprare le ossa per una futura lotta? Armarci e sparare in fronte al primo che ci fa un complimento? Autoacidificarci in modo che questo corpo non susciti più istinti se non di disgusto? O forse no: forse potremmo cavalcare la strada amicale e girare nude, magari con un cartello che dica: accomodatevi! Oramai la strada è già imboccata, basta solo che ci diciate che può andar bene così.

Oggi è uscito il libro di Loredana Lipperini: Ancora dalla parte delle bambine. Lo attendevo da un po'. L’ho comprato qualche ora fa. Posso solo segnalarvi, per ora, che le tematiche sono interessanti e, talune, incentrate sulla pubblicità che è un campo che mi appartiene, con riferimenti ad Anna Maria Testa (Liscia, gasata o Ferrarelle? Di Sangemini ce n’è una sola. Tanto per fare qualche esempio di campagne pubblicitarie, e uno dei più bei libri sulla pubblicità: La parola immaginata).

Donne, la dobbiamo smettere di attenderci che “loro” capiscano: basta con questa femminilità che ci hanno cucito addosso. Basta vi prego, ché qui si continua a morire da stronze.

L'anima dei morti.

Rispetto alla festa di halloween (che personalmente trovo divertente), la cosa che più mi spiace è il constatare, ogni anno, la mancanza di conoscenza delle tradizioni italiane, e, ogni anno m’incazzo un po’ di più con Garibaldi e il suo obbedisco della malora.

In realtà, vi sono paesi del Sud, dove "la notte dei morti” è sempre stata festeggiata in maniera piuttosto interessante. A Sannicandro Garganico, per esempio, la notte del 31 ottobre, i bambini, mascherati o no, si riunivano in gruppi e andavano per case a chiedere “l’anima dei morti”. Il ritornello non era “dolcetto o scherzetto”, bensì “damm l’an’ma ‘i mort ca s’ no t’ sfasc la porta” [traduzione doverosa: dammi un regalino - metaforicamente indicato come “anima dei morti”- altrimenti butto giù la porta]. Il “regalino” ha avuto, ovviamente, la sua evoluzione. In principio erano dolci fatti in casa, essenzialmente peperati che si iniziava già a preparare dalla fine di ottobre e che avrebbero costituito il dolce natalizio, ché i panettoni manco si sapeva cosa fossero, ma anche taralli dolci da pocciare nel vino, melacotogne, melagrane, marmellate, castagne, ceci cotti nella cenere, collane di sorbi essiccati. Inoltre, il mattino del 1 novembre, i bambini trovavano “la calza” piena di dolcetti. Non era la befana a portarla a cavallo di una scopa, ma erano i propri morti che dall’aldilà pensavano ai loro bambini. Questo creava un legame fra vivi e morti che andava oltre l’orrore, e si attendeva quella notte in cui le anime si sarebbero congiunte in una sorta di prova generale del Giudizio Universale.

lunedì 29 ottobre 2007

Paradossi.

Lina si alza tutte le mattine alle sei, prepara la colazione per i figli e il marito, esce di casa e va a riordinare le case altrui. Case più belle della sua, più grandi, meglio arredate. Case di gente che lavora. Custodisce le chiavi degli appartamenti in una borsetta di vernice rossa che le hanno regalato, il Natale scorso, le Signore del condominio di via Giacomo Leopardi. Arriva discreta e silenziosa nelle loro belle case e si reca dritto al ripostiglio dei detersivi. Compie gesti ripetuti, di routinaria memoria. La signora Matilde è attenta soprattutto alla pulizia del bagno e della cucina; la signora Marianna ha a cuore che il pavimento sia sempre lustro; la signora Giuliana si è raccomandata che la cameretta del bambino sia rispolverata ogni giorno ché il piccolo soffre di allergia; la signora Carmela darà una festa sabato sera e vuole che la sala sia a posto; la signora Selène, col suo accento straniero le ha domandato di avere cura delle sue piante…
Un’ora per ogni appartamento, circa quattro-cinque ore al giorno, non di più ché il pomeriggio deve accompagnare la piccola in palestra e il grande a ripetizione di latino, per un guadagno di circa cinquanta euro che moltiplicato per venti giorni fa mille euro in nero. A cinquant’anni e con una vita che lei ritiene banale alle spalle, si sente inadeguata per quel mondo in cui è solo una serva. L’altro giorno ha sentito una notizia che l’ha fatta sorridere: la cameriera del sultano del Brunei, guadagna sette milioni di euro l’anno. Per rendersi conto del valore del denaro, Lina ha ancora bisogno di fare mentalmente un rapido passaggio alla lira: sette per due quattordici miliardi. Poco meno, lo sa bene, ma per lei non fa differenza: l’entità del guadagno va oltre le sue volontà di far di conto; la notizia non è alla sua portata. È stata una sorpresa maggiore, per lei, scoprire che la signora Giuliana che fa l’impiegata guadagna meno di lei, e ci paga pure le tasse!

domenica 28 ottobre 2007

Perché Maddi piange?

Lo scrittore uscì di casa con la Moleskine in mano, ben visibile affinché tutti potessero intuire, al primo sguardo, le sue caratteristiche di osservatore arguto, pronto a immortalare con le sue parole intime e feroci la realtà. Andò al parco e scelse accuratamente una panchina che gli consentisse una prospettiva allargata sul mondo circostante. Accese una sigaretta e aspirò profondamente il fumo che miscelandosi con l’aria semi-pulita si depositò nei polmoni creando quella catarrosa necessità di sputare parole dalle proprie viscere.
Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto, gli offrì lo spunto creativo di quella tiepida giornata di primavera. Lo scrittore lo osservava mentre compiva il quarto giro di pista. Annotò tutto, perfino il colore degli occhi azzurro-verde che spiccavano sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Le parole si disperdevano in righe poco uniformi: qualcuna andava verso l’alto, qualcuna verso il basso. Forse aveva compiuto un errore imperdonabile per uno scrittore del livello quale egli voleva proporsi al mondo intero: aveva scelto una Moleskine senza righe e senza quadretti. Si era domandato più volte quale fra i taccuini-musa fosse adatto alla sua arte e aveva optato per quello a fogli bianchi. La mia scrittura – si era detto fra sé e sé – è come la pennellata di un pittore. Io sono il Van Gogh della scrittura, mi merito una Moleskine da schizzi. Ora che le righe assumevano un aspetto anarchico non era più convinto della sua scelta. Il colore azzurro-verde degli occhi del giovane, intersecava l’appendice musicale in un tormento di alti e bassi che non dava spazio alla sua sintassi accurata. Avrebbe voluto avere fra le mani il taccuino di Hemingway o di Chatwin, avrebbe voluto accarezzare i loro appunti: quale avranno scelto? Il foglio bianco?, i quadretti?, le righe?
Due adolescenti, ridacchiavano dietro di lui. Non le aveva sentite arrivare, troppo preso dai suoi pensieri, e un po’ lo infastidì quella violazione al suo spazio d’artista, quella intromissione coatta nella delineazione di un’ispirazione profondamente introspettiva da non aver spazio per due personaggi fuori programma. Era costretto ad ascoltare il loro chiacchiericcio inutile, a scoprire che avevano bigiato la scuola per incontrare Greg. Chi è Greg? Allo scrittore non importava affatto, lui aveva già il suo personaggio e queste due ochette con la maglietta scollata sotto ai giubbottini colorati lo stavano importunando. Il continuo drindinnare dei loro cellulari lo irritava. L’alto e il basso delle sue righe pure. Cercò nello zaino il vecchio quaderno di appunti, un banalissimo quaderno con il volto di quello che era stato il suo calciatore preferito, sulla copertina. Un quaderno da dilettante, da appassionato della scrittura, non un vero taccuino da scrittore come quello che, ora, era nelle sue mani e avrebbe suggellato il suo successo. Scorse velocemente le pagine, senza leggere ché quelle erano emozioni d’altri tempi, senza struttura e senza corpo. Gli interessava trovare una pagina non scritta, una pagina da posizionare sotto ai fogli bianchi del suo futuro da grande scrittore, ‘sì da avere in trasparenza linee rette orizzontali che non osava, non più, chiamare fogli a righe. Trovò tre pagine bianche e si rallegrò che quel suo passato da intimo scribacchino avesse concesso una chance al suo futuro.
Greg arrivò, fasciato in jeans attillati a vita bassa che lasciavano intravedere l’elastico di un intimo alla moda. Rispondeva a voce alta al cellulare con display ad alta definizione e si atteggiava come un uomo fatto contrastato dalla peluria ancora incerta che copriva il suo volto familiare per la sua indistinta generalizzazione fisica che rende gli adolescenti tutti, inevitabilmente, somiglianti. La ragazza coi capelli lunghi gli andò incontro e gli stampò un bacio sulla guancia. Salutandola, Greg le diede un’identità: Gio’. L’altra aveva i capelli più corti e sembrava meno loquace, scompariva in un corpo esageratamente magro e sotto a un cerchio nero naturale che infossava i suoi occhi forse neri o solo spenti. Greg e Gio’ non la chiamarono mai per nome, lasciandola in un anonimato temporaneo, sotto un filo di trucco che non riusciva a velare un pallore innaturale.
Il giovane in calzoncini corti e canottiera sudata, giunse al termine del quarto giro di pista. I suoi occhi azzurro-verde incrociarono quelli dello scrittore che si sentì nudo di fronte al suo personaggio, sconfitto da una passione descrittiva quasi morbosa. Si fermò davanti alla panchina e avanzò verso di lui. Lo scrittore si sentì investito da un’emozione forte: il suo personaggio stava prendendo vita, si stava avvicinando a lui, presto le loro anime si sarebbero congiunte in un amplesso emozionante. Strinse forte la sua Moleskine, la sua musa, il suo futuro. Il petto sembrava una piazza di paese in festa. Il giovane oltrepassò la panchina e raggiunse i tre intrusi, sotto al tiglio, proprio alle spalle dello scrittore. Salutò Greg, Gio’ e…Maddi. Maddi si alzò per la prima volta, abbracciò il giovane coi calzoncini corti e la canottiera sudata e si abbandonò ad un pianto disperato in cui trovò anche lui un’identità: Leo.

Lo scrittore strappò la pagina al vecchio quaderno, la inserì sotto al secondo foglio della Moleskine e riordinò i suoi appunti: Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto è giunto al quarto giro di pista. Il colore degli occhi azzurro-verde spicca sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Ora le righe erano perfettamente allineate.
Con la sua Moleskine sotto al braccio, accese un’altra sigaretta. Dietro di lui, il suo personaggio e i tre intrusi si stavano allontanando. L’emozione per quella prima pennellata lo riempiva totalmente. Abbandonò il parco e andò in libreria. Fra le novità spiccava il libro di uno scrittore che non gli piaceva per nulla: giovanilista e subdolo. Rigirò fra le mani una delle poche copie rimaste, altre erano in cassa, fra le mani di Gio’ e Maddi, che lo scrittore non riconobbe. Nella prima pagina lesse: Un giorno attraversi un frammento della tua città. Visto e rivisto, eppure capace di stupirti in qualche suo piccolo, nascosto particolare. Lo attraversi e non stai cercando niente. Nessuna novità. Sei lì, come lo sei stato tante e tante volte in passato. Sei lì e vedi qualcuno. Di cui non sai nulla. Nemmeno ora che scrivi e che è passato del tempo. Qualcuno che ti suggerisce, senza nemmeno saperlo, una storia. Una storia intera che praticamente si è scritta da sola.
Lo scrittore lasciò la copia ad altri avventori meno arguti di lui. Diede un’occhiata alla sua Moleskine, e si contorse in un’espressione di angoscia che esprimeva tutto il suo rammarico per una categoria di lettori incapaci di comprendere il valore della letteratura, della cultura, della scrittura. Quell’espositore all’ingresso, con le poche copie rimaste di un libro senza altro spessore culturale che l’osservazione dei propri lettori gli incuteva più timore di ogni imbarbarimento umano. Quel libro stava occupando il posto che, per diritto letterario, spetta a lui. Lui che adesso ha una Moleskine e un personaggio. Che scrive per sé e non per un lettore specifico. Che osserva con l’arguzia dell’intellettuale e non quale selvaggio assorbente della vita. Le righe perfettamente allineate sul secondo foglio della sua Moleskine sono un’aspirazione e una condanna, l’esempio di una qualità di scrittura che a nessuno più interessa indagare. Il petto gli si strazia in una morsa di dolore e dà un calcio all’espositore. Denuncia al mondo racchiuso nella libreria di paese la sua disapprovazione, il suo tormento, il suo struggimento.
Maddi, magrissima, gli si avvicina e gli domanda cos’abbia. Lo scrittore tace, non ha parole per lei, non la conosce. Nella foga la Moleskine è caduta e si è aperta sul secondo foglio con le righe perfettamente allineate e una bella scrittura chiara. Maddi legge: Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto è giunto al quarto giro di pista. Il colore degli occhi azzurro-verde spicca sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Legge, ma non riconosce quel momento che pure le è appartenuto, non trova il perché di quel pianto disperato rimasto nel parco. Richiude la Moleskine, la porge allo scrittore e va via con il suo nuovo libro sotto al braccio.

sabato 27 ottobre 2007

Brindisi

I bicchieri alzati e i sorrisi accesi su facce rilassate di un’estate appena iniziata. Gli aghi del grosso pino, testimone di stagioni vissute nel silenzio dell’incomprensione, caduti e ingialliti sul cortile di ghiaia sparsa sulla vecchia colata di cemento sollevato dalle radici degli alberi, bucato dalla forza inaspettata di un esile filo d’erba. Voci adulte che si sovrappongono alle medesime allegre e infantili degli anni passati. Guardo indietro, verso il cortile che si affaccia sulle terre arate con le zolle indurite dal calore e dall’arsura. È di là che arriva il vento di mare e io l’aspetto perché adesso ho bisogno di tornare a volare. Le voci si fanno confusione, la confusione angoscia, l’angoscia rabbia, la rabbia fuoco, il fuoco vendetta, la vendetta parole, le parole silenzi, i silenzi pensieri.

Parole.

La madonna di gesso è sbiadita al sole, il suo manto celeste è diventato grigio. È sporca quella madonna, come è sporca la sua presenza muta.
Una margherita timida. Una sola, al posto di quell’enorme cespuglio che strappai con il dolore e con la zappa, entrambi arrugginiti.
Rose scarlatte e puttane che continuano a fiorire. Non è stata sufficiente la mia ferocia. Avrei dovuto scavare in fondo, estirpare le radici.
Silenzio.
Ha accolto il mio grido, il vento, e lo sento arrivare con l’abbaiare dei cani e le voci di brindisi lontani. Il giorno è di festa e di allegria. Il vino è rosato e leggermente frizzantino, con un retrogusto che sa di frutta e di bouquet. Qualche goccia cade dai bicchieri e si versa sulla tovaglia di sfilato siciliano. Ti guardo madre e mi aspetto un tuo abbraccio. Ti osservo padre e mi aspetto che tu interrompa il brindisi.
Parole.
La terra sottratta alla palude, racconta di acque nere e stagnanti ripulite dall’acqua fresca e lievemente salmastra. Terra rossa d’argilla e di sangue.
La stanza rosa, la mia preferita, piange lacrime di pioggia che filtrano dal tetto l’odore di stantio.
I gechi si scaldano sulle pietre roventi della casa. Inquieti osservatori. Silenziose macchie di giallo e nero.
Pensieri.
Sto per rompere il tuo silenzio codardo madre amatissima e innalzata nella mia testa oltre le sottane della vita. Fra qualche attimo irromperò nella tua cristalliera di fragilità e frantumerò anche i pochi cocci rimasti del tuo sogno. Ti donerò qualche goccia del sudore dei miei anni e qualcuna delle lacrime versate nella solitudine della mia esistenza dispersa sotto ai lembi del tappeto di una vita che non mi è mai appartenuta, di una vergogna che mi hai lasciato vivere da sola. Hai il mio perdono madre, e la mia rassegnata comprensione. Non ti devo il mio silenzio.
Sto per massacrare il tuo orgoglio padre che avresti dovuto proteggermi dai mali della terra quando eri ancora impantanato nella tua vendetta contro il mondo a cercare di capire quale cazzo di vita fosse preferibile fra le tante che vivevi e quella che mi apparteneva nelle quale, talvolta, ti rifugiavi, ma che ti pesava in spalla come una zavorra. Ti donerò un po’ del mio coraggio e della mia forza che è una spada forgiata nel fuoco del tuo stesso sangue.
Brindisi.
Brindo a te padre di mio padre che ti dicevi due volte padre mio, signore di questo luogo, padrone e carceriere, cantastorie e imbroglione. Possa la tua anima vagare in eterno raminga, senza paradiso o limbo, e senza inferno; possa tu sentire tutte le notti l’urlo del silenzio, le carni che si straziano, il dolore in fondo all’anima, la vergogna nelle mani, il peso delle ossa, il mugolio di un ansimare che ti dà angoscia e pace nel segno di una fine, il fruscio del letto di lino bianco e spine, l’odore del tuo sudore che diventava il mio, l’alito di menta e di tabacco, i pomeriggi afosi di vite non vissute, il tatuaggio indelebile del tuo essere e divenire, il sangue mio versato nel tuo sudario, senza altro onore che il tuo peso sopra al mio. Brindo alla tua eternità.
Silenzio.

La metafora dell'assorbente igienico femminile.

Questo post è chiuso ai commenti per due motivi: il primo è che è una sovrafetazione di “Il libro che lava più bianco”; il secondo è che ho la certezza che pochi ne coglieranno la metafora. Chi dovesse coglierla può liberamente esprimerla nel post precedente.

Credo che non vi sia un prodotto diversificato quanto l’assorbente igienico femminile e trovo che la sua storia (qui raccontata senza pretese) sia fra le più intelligenti, e che porti a riflettere sui meccanismi motivazionali (preesistenti e indotti) della diffusione di un prodotto.

Dunque...

L’avete presente l’assorbente igienico femminile? Una pezza di lino per le nostre nonne era sufficiente. Doveva essere bianca perché candeggiabile e lavabile a temperature elevate che ne consentissero la “sterilizzazione” con acqua bollente. Poi qualcuno ha pensato ad altro: sono nati i primi assorbenti igienici monouso, di enorme spessore e consistenti in un film di garza che conteneva ovatta (cotone). Costava di più di una pezza di lino, in genere ricavata da lenzuola non più utilizzabili, ma garantiva una maggiore igiene ed evitava lavaggi difficoltosi e stomachevoli giacché le macchie ematiche non sono fra le più facili né dal punto di vista della detersione né dal punto di vista dell’approccio psicologico.


C’era un solo produttore, che chiameremo Signor A, per tante donne: i costi di produzione potevano essere distribuiti in maniera tale da consentire un buon mark up anche a prezzi di vendita contenuti. Ma poi il Signor B ha pensato: Perché non posso farlo anch’io? Si è informato, ha compilato un business plain e ha valutato i vantaggi. Ha investito e ha iniziato a produrre assorbenti igienici uguali al Signor A. Che delusione scoprire che le sue vendite erano irrisorie rispetto a quelle del Signor A.

Ma come? – si diceva fra sé e sé il Signor BIl prodotto è buono quanto quell’altro, perché io non vendo e lui sì? Un amico, tanto per fare un po’ di conversazione, gli disse, un giorno: Tutte quelle donne sono affezionate al Signor A, lui ha loro risolto un problema, si è posto come necessario. Tu per vendere devi abbassare il prezzo. Il Signor B accettò il consiglio e mise sul mercato assorbenti identici a quelli del Signor A a un prezzo più competitivo. Il risultato fu più che soddisfacente: le donne si divisero a metà, fra coloro che rimasero affezionate al Signor A e coloro che lo tradirono a vantaggio del Signor B.
Il Signor A e il Signor B guadagnavano veramente bene. Era ovvio che il loro successo facesse gola anche al Signor C, che iniziò a produrre, anche lui, assorbenti igienici tale e quale a quelli del Signor A e del Signor B. Il Signor C pensava di essere furbo e quindi abbassò ulteriormente il prezzo di vendita, ma, a fine anno, si accorse che il suo mark up era irrisorio. È vero che si era ritagliato un terzo del mercato, ma abbassando il prezzo era arrivato a un bilancio quasi alla pari. Non poteva funzionare. Allora pensò a un modo per battere la concorrenza. L’idea gli venne all’improvviso, ispirata da una delle solite lagne da dismenorrea della moglie: Eccheppalle! Proprio oggi mi dovevano arrivare le mestruazioni? Ho appena comprato la gonna nuova, stretta e con lo spacco e non posso metterla perché altrimenti mi si vede la sagoma di questo enorme pannolone!

Come ho fatto a non pensarci prima? – urlò raggiante il Signor C lasciando la moglie a scegliere un abito più adatto. Corse in ufficio e chiamò i suoi collaboratori: Dobbiamo realizzare un assorbente più piccolo, anatomico, che non dia fastidio! Le donne devono poter indossare quello che vogliono quando vogliono.
L’esperimento riuscì. Quando le donne andavano al negozio avevano tre brand fra cui scegliere e uno rassicurava sulla comodità e sulla “femminilità”. Il Signor C si guadagnò un bel picco nelle vendite. Il Signor A e il Signor B allora s’inventarono l’ultrapiatto e il notturno. Era una guerra fra tre produttori che, alla fin fine, si spartivano un mercato molto vasto e molto redditizio. Così redditizio da far gola ai Signori D, E, F, G, H, I.
Così, dalla pezza di lino si è arrivati, a suon di differenziazione, a una miriade di tipologie di assorbenti igienici femminili. Le donne erano confuse: troppa scelta, che fare? Si affidarono all’affettività e restarono legate agli assorbenti di A, di B e di C. Fino a quando al Signor J, venne in mente di fare pubblicità. Il Signor J si era inventato l’assorbente più innovativo di tutti, posto che un assorbente possa essere innovativo giacché la sua funzione è sempre e inevitabilmente la stessa: un assorbente che ti consentiva di fare proprio tutto, perfino lanciarti con un paracadute. Quante di quelle donne si lanciavano quotidianamente con un paracadute? Ma il bello è che il Signor J lo disse in televisione, alla radio, sui giornali. Ovunque le donne andassero si trovavano di fronte il brand dell’assorbente del Signor J al quale va riconosciuto, fra l’altro, il merito di aver abbattuto il tabù della dismenorrea, fino ad allora taciuta e sussurrata con nomi fantasiosi solo fra donne.
Successe che anche K, S, W, H e perfino A, B e C iniziarono a fare pubblicità. Assunsero ricercatori ed esperti, ma se da un lato la ricerca cresceva, d'altro lato si immettevano sul mercato assorbenti sempre meno differenziati (ché erano state esaurite le possibilità), fino a quando non venne in mente, al Signor R di creare un bisogno indotto trasversale all’assorbente. Le donne che costituivano il mercato oramai era esaurite, spezzettate fra i tanti produttori. Questo il Signor R oramai lo sapeva bene e sapeva che quel mercato aveva un limite: la periodicità. Non poteva mutare le leggi naturali e biologiche, ma sicuramente c'era un modo per abbattere quella criticità: L’assorbente deve entrare a far parte della vita quotidiana della donna, ohibò! E così nacque il salvaslip. Un sottoprodotto che aveva due scopi fondamentali (entrambi commerciali): il timing e quindi eludere la criticità di vendita legata alla periodicità; la concorrenza e quindi evitare di creare un prodotto che cannibalizzasse quello proprio (leader e portante) e si creasse un mercato trasversale e derivato. Le donne – convinte anche da una spinta igienica massificata che ha finito con l’ammazzare la flora batterica e aumentare i tumori uterini, ma questa è un’altra storia come altra storia è la confusione fra femminismo e dismenorrea – si sono sentite considerate nella loro intimità e hanno iniziato ad acquistare i salvaslip, poi i contenitori salva-privacy, gli accessori eccetera. Ma la Signora U voleva andare in piscina anche “in quei giorni” e allora il marito le ha inventato il tampone…e la storia continua.

Contestualmente si andava proclamando anche un altro stendardo: il no logo, veicolato attraverso i discount. I Signori A, B, C, D, ….Z, attenti conoscitori dei loro segmenti di mercato, vi si adeguarono immediatamente, canalizzando in quegli ambiti i loro assorbenti senza brand e così conquistando anche i segmenti più ostili e difficili (quelle nicchie che avevano mantenuto un minimo di decoro, che si manifestava tuttavia non tanto nell’utilizzo delle vecchie pezze di lino bensì nella critica verso le attività commerciali, verso il marketing e verso la pubblicità, nell’ottica non tanto di una presa di posizione attiva ma di difendere lancia in resta una propria incapacità – definita per ovvi motivi impossibilità – di scelta).
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venerdì 26 ottobre 2007

Il libro che lava più bianco.


È da un po’ che mi riprometto di segnalare Linguaggi e Parole, lo faccio oggi, cogliendo uno spunto dal post di Ribelle: Una riflessione sul mondo letterario odierno. Un pezzo limpido, equilibrato, che dice senza aggressività e con un pacato invito rivolto agli scrittori esordienti alla prudenza. Però non voglio parlare di letteratura, l’ha già fatto lui. Non voglio parlare neppure di scrittura e di editoria: l’ho già fatto varie volte. Oggi voglio affrontare questo discorso in una chiave più diretta: la pubblicità, rompendo una promessa fatta a me stessa sin dall'inizio.

Ogni volta che si parla di libri e di editoria, ricucito con diversa sintassi ma uguali contenuti, tanto da apparire come il restyling di un copiaincolla senza copyright a disposizione di tutti, viene lanciato l’allarme:

Il libro è diventato un prodotto del marketing e della pubblicità!

Cari/e casalinghe di Voghera, quand’è che il libro non è stato un prodotto? Quand’è che non ha avuto un costo? Una volta che il romanzo ha oltrepassato la frontiera dell’arte creativa per buttarsi nel mercato, in cosa esattamente differisce dall’assorbente igienico?

Il libro è un prodotto.

Questo non lo dissacra. Dissacrante, semmai, per la cultura tanto invocata, è l’ostinazione a voler varcare la frontiera a ogni costo. Dissacrante è la guerra che nella blogosfera gli aspiranti scrittori si fanno, cercando notorietà e allo stesso tempo puntando il dito quando qualcuno la ottiene. Dissacrante non è il paragone con l’assorbente igienico, ma lo scoprire che quello (l’assorbente) è molto più evoluto e differenziato del libro.

martedì 23 ottobre 2007

A chi interessa più scoprire se ciò che si scrive è vero?

Ho letto questo.
Penso questo:
C’è differenza fra sincerità e onestà. Una linea sottile sottile che diventa trincea di sacchi di sabbia e mattoni. È vero, vi è uno strano modo di recensire Sappiano le mie parole di sangue. Anzi due: uno coinvolto da una scrittura che penetra nelle viscere; uno ammantato da una coltre di neo sarcasmo che ha il gusto della burla da scemo del paese. Vi è, in mezzo, una verità che a nessuno preme di indagare, e questo è intellettualmente scorretto. Se non è scorrettezza, allora è disinformazione. Peggio, sia per gli uni che per gli altri recensori. Questo Paese (il mio, il nostro) si culla, da un po’ di anni, sotto allo scintillio di gemellaggi imprenditoriali e politici che hanno evidenziate le voci “Balcani” e “Mediterraneo”. Finanziamenti e investimenti pubblici sono dirottati in quelle direzioni. Public Relation e New Economy. Tutto è meravigliosamente nuovo e splendidamente redditizio per una specifica classe politica e imprenditoriale. Il libro di Babsi Jones, a prescindere dalle recensioni, a prescindere – perfino – dal piacere o meno, avrebbe dovuto suscitare un qualche interesse da parte della stampa. Avrebbe dovuto, qualcuno (sarebbe bastato uno solo), domandarsi: Sarà vero? E invece no. Invece vi è silenzio e vi è la solita accondiscendenza passiva e stupido atteggiamento da burattino che è il male cronico di ogni italiano. Ci si perde nelle discussioni vuote, fatte di piccole prepotenze intellettuali, e si devia dal fatto in sé. È così che siamo stati educati: ci scagliamo frecce avvelenate da archi sempre tesi e dimentichiamo di osservare, pensando che uno sguardo qua e là sia sufficiente.
Penso, io, che semmai dovessi incontrare la Letteratura, le domanderei scusa per il ruolo in cui, noi, l’abbiamo relegata. E, se, per un’inaspettata fortuna, mi dovesse capitare di incontrare il Giornalismo, mi prenderei la briga di domandargli: Dove ti sei nascosto per tutto questo tempo? Ritorna, ché mi manchi assai. Il resto è brodaglia: recensioni viscerali e recensioni sarcastiche. Solo consueto sapore di sé.

domenica 21 ottobre 2007

Randagi International

Randagi sta ottenendo un discreto successo. Al fine di non limitare la lettura dei racconti ai soli italiani, con la mia amica Jane (Bhuidhe, per la blogosfera) ne abbiamo ipotizzato la traduzione in inglese. Naturalmente a tutti gli autori sarà chiesta autorizzazione e sarà inviato, in privato, l’indirizzo e-mail di Jane al fine di concordare passaggi e trasposizioni.

Jane, oltre ad essere una carissima amica, ha competenze specifiche e ampia professionalità nel settore. Competenze e professionalità che, esclusivamente per Randagi, saranno completamente gratuite.

Personalmente vedo in questo progetto, oltre che l’affermazione di un concetto che mi sta caro (la rete non è: la rete si fa) il nostro no alla burocratizzazione dei blog. Ritengo che la velocità, la gratuità e la facilità di questo mezzo sia un potere che i cittadini italiani non debbano mai lasciare intaccare. È l’ultima voce realmente libera, per chi, naturalmente, riesce a capire l’importanza di questa libertà.

Aggiungo due dettagli (a gentile richiesta e visto che da un po' di tempo, da quanto mi scrivete, è impossibile commentare sul mio blog):

1. Collaboro gratis anche con Buran, un'ottima rivista online che fa la stessa cosa di Randagi nella direzione opposta, cioè dalla lingua straniera verso l'italiano.

2. Mi sono tagliata i capelli da quando è stata scattata la foto (nel corso di una bella serata a Milano, n.d.a.)




JANE & ASSU

sabato 20 ottobre 2007

Strano errore, caro ministro. O no?

[Di seguito vi copioincollo il commento inserito sul blog del ministro Paolo Gentiloni, in particolare sul post “Internet. Un errore da correggere.”
La denuncia è partita – pare – dal blog di Grillo.]
Gentilissimo signor ministro,
non mi prendo la briga di leggere tutti i commenti al suo post, per due motivi: il primo è che non è mia abitudine frequentare il suo blog; il secondo è che ciò che lei scrive è più grave di quanto si possa pensare e voglio evitarmi l’ulteriore sangue amaro di dover leggere pensieri sconnessi ammantati – sovente – da nickname. Questo Paese (il mio, in nostro) non ha bisogno di maschere, ce ne sono state fin troppo: maschere ideologiche, maschere culturali, maschere professionali, maschere di partito… I blog rappresentano nulla di più delle chiacchiere che la gente comune (legga tranquillamente: italiani) fa quotidianamente nei luoghi di aggregazione. Ma sì, le chiami pure chiacchiere da bar, da treno, da pausa caffè! C’è un MA, tuttavia: evidentemente queste chiacchiere stanno sulle palle a qualcuno. Scrivo palle non per essere volgare, ma perché - diciamoci anche questo giacché ci siamo! – la politica è fatta da uomini e da qualche donna portata su da uomini, e tenuta a bada (quote rosa docet: intendiamoci, non sono femminista e penso che finché le donne si faranno costruire dagli uomini le quote rosa non ci sarà nuova storia). Ma torniamo al punto: è evidente che questa storia degli italiani che si “parlano e confrontano” attraverso il web e più nel dettaglio attraverso i blog, sta sulle palle a qualcuno. In caso contrario dovrei credere alla storiella della “svista-errore” e, francamente, riconosco alla classe politica italiana, quantomeno, quel grado di intelligenza per “non sbagliare casualmente”. Tuttavia, nell’ottica del “volemosi bene, perdoniamoci ché a sbagliare capita a tutti” direi che sarebbe auspicabile correggere immediatamente l’errore, senza farne una questione politica. Penso, io, che in questo momento particolare l’Italia abbia bisogno che i suoi “governanti” si occupino di ben altro, il bene del Paese per esempio, o – perché no? - il miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Perché, penso io, se i cittadini stessero un poco meglio, i blog non farebbero più tanta paura e non si rischierebbero più errori di questo genere. Lei non crede?
Assunta Altieri

giovedì 18 ottobre 2007

La parabola del figlio di Abramo. Parte seconda.

Ci fu un tempo in cui Dio chiamò Abramo e gli disse: Sacrifica tuo figlio sull’altare. Fallo per amor Mio. E Abramo condusse il figlio sull’altare, tirò fuori il suo pugnale affilato e alzò il braccio, dritto e fermo, sopra il suo corpo inerme e fiducioso. Ma Dio lo fermò: Mi basta sapere che l’avresti fatto, disse ad Abramo. Va in gloria e cresci il tuo figliolo nel nome Mio. E Abramo condusse il figlio dalla moglie e le disse: Cresci mio figlio nel nome di Dio. La donna era all’oscuro dello scherzetto che Dio [burlone] aveva giocato ad Abramo, pensò che il marito non avesse avuto le palle e, per dirla tutta, quel giorno aveva pure le sue cose e un filino di depressione [e a quei tempi mica c’erano tanti psichiatri pronti a prescrivere antidepressivi e psicofarmaci], così un po’ stordita, un po’ giù di pressione e un po’ svampita, condusse il figlio nella stalla vicina e lo sgozzò. Poi si rivolse al Signore Iddio e pregò: Sia fatta la tua volontà, Signore. Ti dono il mio figliolo diletto. Io gli ho dato la vita e Io gli ho dato la morte. In nome Tuo, s’intenda!
Dio che si era un po’ distratto si trovò di fronte al fatto compiuto.
Che cazzo hai fatto? Tuonò.
Non lo so, ero fuori di me. Lo sai che le mestruazioni mi fanno uno strano effetto! Certo che ci potevi andare giù meno duro con noi donne, Signore… A me non mi pare corretto che per tutta la vita devo penare per colpa di una mela e di una zoccola con le voglie.
Cos’hai fatto, donna? Hai ammazzato tuo figlio?
Io gli ho dato la vita e Io gli ho dato la morte, Signore. In fondo, che differenza c’è fra me e te?


Morale: un tempo i depressi si buttavano giù da una rupe, oggi ammazzano i figli. Donne, è ora che la smettiamo di crederci Dio. Dare la vita è un mistero prezioso che non dà il diritto di toglierla. Un figlio è una persona, non è cosa nostra, non ci appartiene. Gli dobbiamo rispetto.