GLI ALTRI CASSETTI

venerdì 23 febbraio 2007

La ballata del Governo che fu. Seconda parte.

Sensazioni a pelle ne abbiamo avute tutti. Ne ho scritto qui, e lo ritrovo, affinato, in un pezzo di Michele Serra.
Si capisce, uno ha tutto il diritto di coltivare i suoi ideali integerrimi. E di sentirsi eletto dal popolo lavoratore anche se è stato spedito in Senato da una segreteria di partito. Uno ha tutto il diritto di rivendicare purezza e coerenza, così non si sporca la giacchetta in quel merdaio di compromessi e patteggiamenti che è la politica. Però, allora, deve avere l’onestà morale di non fare parte di alcuna coalizione di governo. E deve dirlo prima, non dopo. Deve farci la gentilezza di avvertirci prima, a noi pirla che abbiamo votato per una coalizione ben sapendo che dentro c’erano anche i baciapile, anche i moderatissimi, anche gli inciucisti. A noi coglioni che di basi americane non vorremmo mezza, ma sappiamo che se governano gli altri di basi americane ne avremo il tripo.

Non votiamo più l’ideologia da molto tempo. Votiamo un sistema, auspicando, ogni volta, che i politici abbiano imparato dagli errori dei competitori e di se stessi. A forza di prendere calci in culo ci siamo bevuti un proporzionale da incubo e ci siamo fatti dire da chi ha sostenuto per cinque anni che loro erano la maggioranza eletta e avevano il diritto di far pipì nel letto, che invece non era più così, senza mai domandare se ci avevano preso in giro prima o ci stavano prendendo in giro poi. E adesso ci berremo qualsiasi altra ipocrisia elettorale.
Non siamo un popolo normale.
Il panorama è angosciante, è osceno. Assistiamo, impotenti, a una forma odiosa di autoritarismo politico, come a dire: m’avete eletto e ora mi tenete alle mie condizioni. La legge elettorale non è che un mezzo, in via di ammodernamento ed evoluzione, per garantire sempre più potere ai partiti e impedire ai cittadini di avere veri rappresentanti. Il popolo è sovrano solo quando va alle urne, poi delega tutto e se per caso non se la sentisse di delegare, ci pensano i Berlusconi sì, ma anche i Prodi e i Napolitano a ricordare che una volta votati, gli eletti, son sovrani. E di fronte a questo, cosa le facciamo a fare le manifestazioni contro la base di Vicenza? Cosa le facciamo a fare le manifestazioni per la pace? Ma soprattutto, come possiamo pensare che afgani e iracheni siano veramente disponibili ad acquisire questa neo-democrazia?

martedì 20 febbraio 2007

Segnal’etica si occupa dei linguaggi della comunicazione. Immediato il collegamento concept-naming: la comunicazione nella sua accezione più ampia, riscontrabile in ogni segno e l’etica, questa grande sconosciuta. Il sito è gestito da Massimo De Nardo che ho avuto il piacere di conoscere, cioè incontrare, cioè incrociare…ai bei tempi della list dell’ADCI (Art Directors Club Italiano). La list dei pubblicitari e dei comunicatori. Bei ricordi.

Su Segnal’etica, se vi va, potete leggere il mio intervento sulla Comunicazione Pubblica.

sabato 17 febbraio 2007

Parole per sé

Parole per sé è solo un'idea che può diventare realtà se mi darete una mano.

venerdì 16 febbraio 2007

Oggi ho la diarrea.


Dirsi per dirsi, o dirsi per sapersi? Sembra uno scioglilingua questa domanda che da un po’ di tempo batte a tamburo nella mia testa, tum tum tum. Mi sento assaltata, presa alle spalle dal frastuono del tempo che scorre nel silenzio della conoscenza di me stessa. In trincea, armata solo della voglia di approfondire, di capire che cazzo c’è al di là del niente che mi gira attorno, tum tum tum. I proiettili sono il tempo e si usurano in fretta ad opera dei pensieri, tum tum tum. Corrono, elevatissimi e nobili, i pensieri, e si sfracellano sul suolo reso arido dalle mine anti-uomo, anti-dignità, anti-pensiero. Cos’è che ci rende così squallidi? Cos’è che ci fa preferire raccontare della diarrea quotidiana piuttosto che di quello che siamo dentro?
Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli dei ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire.
(Oliver Sacks)
Siamo incapaci di guardarci dentro perché non sappiamo più guardarci indietro. Vomitiamo banalità, ci spurghiamo senza pulirci, crogiolandoci fra la melma defecata, senza capacità di scernere e tirare fuori quel poco di buono che c’è. La diarrea è il risultato di ciò che siamo. Guardarci indietro. Guardarci indietro senza rimuginare, ma con lo spirito di chi osserva e indaga, e osserva e indaga, e osserva e indaga… leggere se stessi. Trovare l’inaspettato dentro la diarrea, quello sì che sarebbe un risultato. La conoscenza è l’Alginor per la diarrea mentale.

giovedì 15 febbraio 2007

Ho letto Babsi Jones.



In questi giorni, su molti blog, si è variamente discusso in merito alla Lettera al commentatore generico, postata da Babsi Jones. In molti, me compresa, si sono affacciati sul suo blog per la prima volta e hanno commentato quell’unico pezzo scritto, quell’insulto al vuoto, quell’odiosa verità spiattellata sullo schermo. Là a disposizione di tutti. Una lettera intelligente, piena di riflessioni che, tuttavia, sfuggono ai commentatori generici che si paraculano in risposte frettolose e genericamente accettabili, che dicono e non dicono, che spesso sottendono un pensiero latente che non ha le palle di venire fuori. O, peggio, si abbandonano a semplicismi e sillogismi difficili da seguire perché si perdono nel frastuono dei “secondo me…” malati di cammeismo che pretendono un riconoscimento immeritato perché nulla aggiungono alla risoluzione, o solo semplice esegesi, del pericolo della massificazione dei pensieri.

Ho letto Babsi Jones. Non solo la Lettera al commentatore generico. Quella non è Babsi Jones, è il suo avvilimento, il suo urlo di lutto per una morte constatata dopo una lunga agonia: è morta l’interazione intelligente. È morta. È morta, e non è una fenice perché non risorgerà dalle sue ceneri. Si estinguerà, invece, nel sapore amaro della generalizzazione, del copiaeincolla di emozioni, dell’io ci sono perché ti dico di esserci, dell’alienazione da tubo catodico, della sintassi sodomizzata da alieni che dovrebbero essere il distillato di migliaia di anni di evoluzione, delle interpunzioni che non ti lasciano respiro, delle parole abusate.

Ho letto Babsi Jones. Non tutto, non è possibile perché Babsi Jones scende giù come una valanga; perché i primi scritti su quel blog risalgono al 2004. Non tutto, non è possibile perché mi piace come scrive Babsi Jones e non ho voglia di scorrere velocemente fra quelle righe maledette che accendono dubbi e scavano crateri dentro di te. Cazzo! Ma dov’eravamo quando questa donna scriveva già? Quando aveva già chiara la sua interpretazione della rete, e pigiava tasti nell’inutile speranza di una risposta che avesse un senso, che allargasse il senso di quel sentire che non ce la fa a stare in una sola spiegazione.

lunedì 12 febbraio 2007

Quando volavo.




Se la lucidità e la razionalità dell’età adulta non me lo impedissero, potrei, adesso, raccontarvi di quando da bambina volavo.
Saprei descrivere esattamente le dinamiche e le sensazioni. Saprei raccontare della discesa che da vicolo San Matteo in quadro continua fino a via Gramsci, che fungeva da pista di decollo. Non era sempre possibile. Bisognava attendere le giornate di vento e non erano affatto frequenti. Ogni mattina, mi alzavo e controllavo se ci fosse una brezza promettente. A volte attendevo per settimane e perfino mesi. Alla fine, il vento arrivava, andavo alla discesa e mi fermavo su in cima, allargavo le braccia e correvo veloce, sempre più veloce, fino a sollevarmi. Dapprima con fatica perché avvertivo improvvisamente il peso del mio corpo, una fitta di dolore che mi attraversava e irrigidiva. Non fu né facile né immediato imparare a sopportare il dolore e più volte caddi, fino a quando capii che bisognava ignorarlo. I primi voli furono timidi e inesperti. Tentai movimenti simili a quelli delle ali d’uccello, ma non era così che funzionava. Non era possibile contrastare la forza del vento, bisognava assecondarlo e mantenere le braccia aperte e semi rigide. Imparai a farmi trasportare e il vento mi prese con sé. Accarezzava le mie guance e premeva contro le braccia aperte.
Mentre volavo e guardavo il paese sotto di me diventare piccolo e lontano, mi liberavo di ogni peso, non solo di quello corporeo. Tutto, tranne ciò che mi sentivo di essere veramente e di volere con me, veniva attratto giù dalla forza di gravità.
Non so con esattezza quando ho smesso di volare. Non so neppure quando ho smesso di considerarlo un ricordo e cominciato a parlarne come di una fantasia. So, però, che nei momenti in cui la razionalità mi abbandona, torna ad essere il ricordo più bello.

domenica 11 febbraio 2007

Se Dio votasse, voterebbe destra.


In Italia si nasce cristiani, e principalmente cattolici. In epoche politiche di predominio democristiano la Chiesa era “il tutto”. La maggioranza votava “croce su croce”, persuasa di compiere oltre al proprio dovere di cittadino (spesso dimenticando che si tratta prima di tutto di un diritto), anche il proprio dovere di cristiano, assicurando alla Chiesa la sua totalità sul controllo delle emozioni e delle azioni. In quell’epoca, d’altronde era ben chiara la distinzione fra destra e sinistra e i due grandi partiti si misuravano anche dalla dichiarata introiezione, o meno, dei principi cristiani: a destra i democristiani, a sinistra i comunisti. Nell’epoca delle grandi coalizioni questa distinzione si è andata affievolendo. Il rimpasto politico, caduti i Grandi Nemici, ha creato una promiscuità disorientante. La Chiesa si è trovata ad essere non più “il tutto”, ma “parte” del tutto, senza una maggioranza nella quale tradurre il proprio codice e i propri precetti. In minoranza. Una minoranza dalla quale è necessario uscire non più nell’ombra dei corridoi vaticani ma in prima linea, attaccando il Governo non sul sistema dei valori ma, direttamente, sui disegni di legge.
Di qui il dubbio: si può, in Italia, essere cristiani/cattolici e votare sinistra? La libertà e la democrazia che sono il fondamento della nostra Repubblica, suggerirebbe una risposta positiva. Ma è così che la pensa il Vaticano? Non mi pare giacché risulta evidente l’intento di creare “alleanze privilegiate” con le nuove forze di destra berlusconiana che non avendo una tradizione di pensiero la mutuano dalla Chiesa, che in cambio reclama il suo ruolo di “tutto” e apre un fronte religioso nella battaglia politica italiana. Il Verbo si volgarizza e il progetto cristiano si trasforma in progetto riformista, che può diventare partito. E poco importa se questo significa trasformare la fede in ideologia.

sabato 10 febbraio 2007

Non possumus.


Quando l’ho conosciuto, Alessandro conviveva già da vari anni con Simone. Si sono incontrati all’università, si sono innamorati, hanno atteso di laurearsi e di trovare un lavoro decente per comprare casa e poi, con qualche sacrificio ma con notevole buongusto, essendo l’uno architetto e l’altro designer, per arredarla. Una storia uguale a tante altre, una storia diversa, tuttavia, perché di diversità sono tacciati Alessandro e Simone. È a loro, dunque, che dedico questo post, al loro volersi bene, sostenersi, conoscersi quotidiano, sopportarsi nei momenti difficili… ed è a loro che penso quando m’indigno profondamente per le reazioni della chiesa e per la lotta dura, in prima linea, del papa.
Non sono una credente e tantomeno una cattolica, tuttavia credo di non dire eresie sostenendo che l’insegnamento cristiano non si basa sulle minacce, sulla violenza, sul ricatto, eppure è proprio questo che viene fuori dallo spiegamento di forze mediatiche attivate dal Vaticano. Guerrieri, lancia in resta, schierati contro i Pacs, o Dico come è stato alternativamente proposto, per togliere quel vago profumo liberale francese che stona nell’Italia dei bigotti. Cavalieri dai guanti bianchi e dalle lame affilate, con un potere mediatico che unito a quello della politica più affine, spronano i loro destrieri e conducono una battaglia che ha il sapore della propaganda politica. Pacs sì-Pacs no è solo la bandiera dietro la quale si cela un sempre più diretto tentativo della Chiesa di minare uno dei principi fondamentali dello Stato: la laicità. Solo la laicità assicura uguaglianza. Una bandiera che porta, oggi evidenti, i segni di una guerra di politica e di potere, di un braccio di ferro che non si può perdere perché c’è in gioco la libertà di tutti, l’individualità di ognuno.

giovedì 8 febbraio 2007

L'ovvio non è il nemico. La violenza sì.


L’Italia spezzata non trova unità neppure di fronte all’ovvio.
Mi sono occupata e mi occupo, fra l’altro, di comunicare la sicurezza, e non solo la sicurezza sul lavoro, ma la sicurezza in senso lato, la sicurezza come cultura da indossare. È questo il messaggio principale che è stato rivolto ai più giovani (il target più difficile) con la recente campagna nazionale Inail “Come stai messo a sicurezza?”, che ha previsto, fra l'altro, interventi diretti nelle scuole assieme alle iene Giulio Golia, Marco Berry e Trio Medusa. Il concept di base è semplice: non sottovalutare l’ovvio. E invece, l’ovvio viene non solo sottovalutato, ma puntualmente contrastato e stupidamente tacciato di banalità. Banali a me paiono le dichiarazioni non solo di Matarrese, che in fondo si è fatto portavoce anche di chi, di fronte alla reazione unanime di sdegno, si è astutamente dissociato, perché sono persuasa che in un clima come quello di questi giorni un presidente non si sottoponga al pubblico giudizio senza un previo briefing, ma anche di quanti, variamente argomentando, si dicono non d’accordo con il decreto del Governo. Penso che, finalmente, siamo di fronte a una mossa vincente e, se – come mi aspetto – le norme saranno fatte rispettare, sarà molto difficile per gli avversari politici (perché di questo si tratta: di mercato e di politica, lo sport non c’entra per nulla) abituati a rimpastare i fatti e riproporli nell’ottica dell’ennesimo fallimento, darne un’interpretazione differente.

Porte chiuse: gli stadi che non sono a norma non godranno più di deroghe. In pratica, ciò che è successo fino ad oggi è che, per raggirare il decreto, veniva dichiarata una capienza di 9.999 posti piuttosto che 10.000. Ora, io mi domando: doveva veramente morire un uomo per accorgersi che si trattava di un espediente per polli? Posto che non mi è dato ricevere risposta da chi di dovere, mi aspetto, quantomeno, che questa svista non si ripeta, che questa volta le perizie siano visionate, studiate e, ove occorra, controllate e riscontrate.

Stop alle trasferte in massa: niente più treni e autobus di ultrà. Dio volesse! Vi siete mai trovati in una stazione al momento del passaggio del treno dei tifosi? Io sì, e non ho per nulla gradito ciò che ho visto: urla, apprezzamenti di ogni genere nei confronti delle ragazze colpevoli solo di trovarsi sulla “banchina del tifo”, oggetti lanciati dai finestrini, offese alle città di passaggio e relativi cittadini… Se non altro, ne godrà la libertà di essere lasciati in pace.

Daspo preventivo: divieto di accesso allo stadio a chi sarà ritenuto non idoneo. Qui, probabilmente, qualche abuso di potere ci sarà perché l’uomo è uomo e non riesce a staccare le spine dell’antipatia epidermica, né del giudizio superficiale. Tutto sommato, tuttavia, se è vero che “è meglio un colpevole fuori dalla galera, che un innocente dentro”, sarà vero anche il contrario: “è meglio un innocente fuori dallo stadio, che un colpevole dentro”. Certo l’abito non fa il monaco, ma sicuramente i bracciali borchiati, i coltellini, i fumogeni… e vario altro materiale che finora è sempre entrato, quasi indisturbato negli stadi, fanno il tifoso violento, o quantomeno “previdente”. Se poi si facessero controlli più approfonditi anche sul personale che lavora allo stadio, il quadro sarebbe completato (vedi il caso del custode capo degli ultrà che riforniva di spranghe e armi di ogni genere i suoi compari che entravano puliti).

Arresto in flagranza entro 48 ore: estensione di dodici ore della possibilità di arresto in flagranza di reato. Mi sembra corretto dal momento che sono le ore di maggior intensità ed emozionalità di un reato e quelle entro le quali sono riscontrabili le prove dello stesso. Ci lamentiamo dell’assoluzione di Andreotti per prescrizione di reati e poi non accettiamo che un delinquente venga catturato oltre le trentasei ore? Mi sembra incoerente.

Giudizio direttissimo applicato non solo a chi avrà lanciato materiali pericolosi, ma anche a chi verrà trovato in possesso di razzi, bengale, e simili. Vabbé che la legge dice che “non è processabile l’intenzione”, ma, obiettivamente, se uno va allo stadio e si porta dietro un razzo cosa ci vorrà mai fare se non farlo esplodere? Non si tratta di fumo o cocaina, non è che uno possa dire: è per uso personale.

Aggravanti per resistenza. Non so se lo spauracchio di cinque anni (minimo) di galera per chi commette violenza e resistenza a pubblico ufficiale possa servire da deterrente, in fondo nemmeno l’ergastolo lo è per chi comunque uccide. Sicuramente però il reale rispetto delle norme lo è, perché un conto è aver paura della galera, un conto è marcirci per cinque anni.


Legami società-tifosi. Non ci deve essere nessun collegamento economico fra società sportive e tifoserie.

Insomma, adesso le norme ci sono. Bisogna “solo” farle rispettare.

mercoledì 7 febbraio 2007

Sorpreso con le dita nella cioccolata.



Fino ad oggi l’espressione dito nella cioccolata, evocava abbuffate a base di nutella. Ma, la cioccolata non smette mai di stupire, e stanca di letteratura e filmografia più o meno sdolcinate ci regala un bel thriller alla CSI.
Trama: un ragazzo tedesco trova un dito in una tavoletta di cioccolata inviatagli da un conoscente. Provenienza: Italia.
Può sembrare uno scherzo, e in fondo il periodo è quello giusto. Pare però che si tratti di un dito reale, proveniente da una mano umana. (Repubblica)

domenica 4 febbraio 2007

Vergogna italiana.


Attenzione, è facile, in questi momenti generalizzare. È estremamente facile, e non fa bene a nessuno.
Una conoscente catanese mi ha scritto una lettera molto accorata che mi ha fatto riflettere parecchio sulla superficialità con la quale, troppo spesso, affrontiamo le emergenze. Una superficialità che ci porta a non indagare le fonti, a prendere per buono tutto quello che ci viene propinato dai telegiornali e da giornalisti più o meno schierati da una parte o dall'altra, a seconda che mangino nel piatto della "cronaca nera" o delle "pagine sportive".
Caterina mi ha scritto del dolore della città, del lutto nel cuore di cui non si parla. E le motivazioni sono facilmente riscontrabili nella ratio di quanto è accaduto che è stato erroneamente catalogato come "attaccamento malato per la propria squadra", mentre avrebbe dovuto essere indagato nel suo significato più profondo, e che più profondamente addolora i catanesi, di "attentato alle forze dell'ordine".
Lo sdegno che da più parti giunge è sicuramente condivisibile. Ma è condiviso, mi precisa Caterina, da ogni catanese onesto e dovrebbe indirizzarsi, assai più correttamente, verso le amministrazioni comunali e, soprattutto, verso chi ne è a capo che ha consentito, a poche ore dal funesto evento, che nello stesso luogo si tenesse il regolare svolgimento del mercatino rionale del sabato.
Da più parti, inoltre, si è commentato circa il regolare svolgimento della festa di Sant'Agata, amata patrona della città. Non sono mancati commenti da parte di personaggi dello spettacolo, come Pippo Baudo. Non sono mancati commenti su blog, anche di pseudo giornalisti catanesi che hanno affermato che il lutto cittadino si è tradotto nella cancellazione della gara podistica e della sfilata dei carri, mentre si sono regolarmente sparati i tradizionali botti.
Caterina mi scrive che, dal 2 febbraio, le candelore sono ferme. Che stamani, all'apertura della festività, nel Duomo di Catania ha regnato il silenzio. Un silenzio che ritengo colmo di significato, colmo di dolore per la perdita di un uomo ma anche per l'ennesima tacca che si aggiunge alla intollerante etichetta di criminali, senza distinzione, senza possibilità di scampo. Un silenzio che ha accompagnato la processione. Un lutto nel cuore che ha smesso di essere urlato perché verrebbe, come sempre, tacciato di aggressività, visto come conseguenza diretta di una società siciliana mafiosa che, inevitabilmente, riguarda tutti i siciliani. Senza possibilità di difesa. Un lutto da custodire nel cuore.
Il silenzio che mi racconta Caterina è disarmante: niente fuochi, nessuna ballata di candelora, nessun canto neppure religioso. È un silenzio rassegnato di un popolo che non ce la fa più di essere definito mafioso e criminale. Senza possibilità di distinguo. La Catania della vergogna piange in silenzio, emarginata dal resto degli italiani. Non è questo che mi attendo. Non è questo che dovremmo attenderci.
Né mi accontenterei di una punizione calcistica. La squadra ha giocato dignitosamente e a nulla servirebbe riportarla in serie C. Dobbiamo prendere atto - i nostri politici devono farlo, le società sportive devono farlo - che al banco degli imputati non c'è il calcio ma il Sistema Italia incapace di garantire sicurezza ai propri cittadini.

Spermatozoi da smascherare.

In Val Venosta, Alto Adige, mezza squadra di calcio, un paio di assessori comunali e qualche altro gentiluomo dovranno sottoporsi al test di paternità (Repubblica). Ciascuno di essi potrebbe essere il futuro paparino del bambino di una donzella per nulla intenzionata a portare avanti da sola il fardello della maternità. Pretende un assegno di mantenimento dal futuro e, evidentemente, ignaro papà, salvo identificarlo.
Non mi permetto alcun commento sul buon costume e sui valori della signora, ma, sinceramente, mi sento un po’ affranta. La neo Boccadirosa, libera – per carità! – di allietare i letti di tredici uomini nello stesso periodo, avrebbe quantomeno dovuto fare i conti con la contraccezione. Mi sembra, infatti, che il suo atteggiamento escluda, a priori, la moralità cattolica e quindi non vi è l’attenuante generica della fede (e anche su questo ci sarebbe parecchio da dire). Che non vi sia un briciolo di follia premeditata?

sabato 3 febbraio 2007

Amore. Oppure no.

Scorrendo fra i blog, senza troppa sorpresa, vado in overdose d’amore.
Come cantava Tenco: ...Chi ha dall'amore i suoi giorni più belli, chi invece vi trova solo disperazione. Chi fa dell'amore la cosa più grande, chi, invece lo vede soltanto come un gioco.

Indiscutibilmente, i topic che hanno una maggiore partecipazione (misurata dai commenti postati), sono quelli che smielano gocce di amore. È facile osservare come ognuno abbia qualcosa da aggiungere.
Constato, tuttavia e con altrettanta facilità, che, sovente, è completamente assente la consapevolezza delle proprie emozioni, così come le creiamo. Di qui a una assoluta perdita di significato della parola “amore” il passo è relativamente breve. Così, l'amore è talvolta confuso con il desiderio (ti amo, intendendo ti voglio); talvolta confuso con l’attaccamento (amo la mia squadra); talvolta confuso con l’identificazione e il senso di appartenenza (amo la mia città); talvolta confuso con la dipendenza (amo fumare); talvolta confuso con l’affetto (amo mia madre invece di voglio bene a mia madre).
A differenza di altre lingue, l'italiano ci consente di diversificare le emozioni, eppure usiamo, abusiamo, stupriamo e volgarizziamo l’amore ogni giorno. “I love” è una scelta obbligata, ma “amo” no.
Forse se imparassimo a usare le parole giuste, l’amore non risulterebbe così inflazionato e non parrebbe, neppure ai più razionali, una sovrafetazione mentale. Avrebbe il suo specifico ambito e vi sapremmo giungere con maggiore serenità e leggerezza. Soprattutto, con la consapevolezza che l’amore è incondizionato e si muove dall’interno verso l’esterno e non dall’esterno verso l’interno.

giovedì 1 febbraio 2007

DIN DON! Parliamo di Dio?

Sono lì a godermi il meritato e biblico riposo settimanale, avvolta nel manto protettivo di un pigiama in felpa pesante, con i capelli bagnati e la maschera rilassante sul viso, a guardarmi il dvd che ha imperato per tutta la settimana accanto al televisore, ricevendo occhiate lussuriose: Ciao bello, sabato stiamo soli, io e te! Organizzo le cose da fare, e step by step le metto in pratica. Al pomeriggio sono più stanca della sera precedente, ma so che da quel momento e fino alla sera successiva sarò libera. È sufficiente per sentirmi bene. Sistemo i cuscini sul divano, giro il carrello ruotante della tv e posiziono il monitor nella direzione ideale. Finalmente inizia il film e…DIN DON!
Rispondo al citofono e sento una vocina da folletto gioioso che mi dice: Buoooonasera, lei crede in Dio? Sono veramente poche le cose che mi stupiscono. Questa è una di quelle. Mi scusi, lei mi sta facendo, attraverso il citofono, la domanda più importante del mondo? Sul serio mi sta chiedendo di dire a lei che non conosco se credo in Dio?
Questi piccoli soldatini di Dio (che siano testimoni di geova o mormoni o evangelisti o vattelappesca) istruiti secondo le più moderne tecniche di marketing di approccio e di relazione, hanno una risposta per tutto, ma soprattutto sono allenati a difendersi. Così passa al contrattacco e si scusa per non essersi presentato, si qualifica con nome e fede e mi chiede la cortesia di aprire il portone. Faccio presente che non ho tempo, disponibilità d’animo e, sinceramente, voglia di riceverlo, ma lui insiste che “almeno” gli apra il portone. Non apro perché se non mi fido di un profeta conclamato, ancor meno mi fido di una voce vagamente qualificatasi. Penso alle due signore anziane che abitano nel mio condominio ed evito accuratamente di far entrare un estraneo.
Sistemo ancora i cuscini, mi sdraio, ritorno al mio film...e…DIN DON! Questa volta il folletto è dietro la mia porta (qualcuno ha aperto) e mi rifà la stessa domanda. Faccio presente che non ho nessuna voglia di parlare con lui e, di rimando, mi giunge una vocina da folletta per bene: Vogliamo solo lasciarle una rivista.
Mi sento braccata. Non c’è modo di liberarmene.
Scusatemi, non posso ricevere nessuno in questo momento.
Le lasciamo la rivista…parla della società, della guerra, dei giovani…
Per cortesia, non ho voglia…
Non deve sentirsi obbligata, vogliamo solo portare la parola del Signore.
Non devo sentirmi obbligata? È da un quarto d’ora che mi massacrano i cosiddetti e non devo sentirmi obbligata? A questo punto il pomeriggio è saltato, la serenità agognata è andata a farsi fottere e così, con tanto di pigiama in felpa a pois e maschera verde sulla faccia, apro la porta e li invito ad entrare.
(…)
Prego, accomodatevi.
(…)
Prego. (Accompagno l’invito verbale con un plateale gesto del braccio.)
Forse non è il momento…ci scusi…
È da un quarto d’ora che dico che non ho voglia e che non è il momento, signora. Adesso ho aperto e mi fa la cortesia di illustrarmi tutto il suo repertorio.
Volevamo solo lasciarle la rivista…
Non è vero signora, suo marito – è suo marito? – mi ha chiesto se credo in Dio, bene adesso voglio rispondere.
Ci scusi…
Mi porge la rivista e cerca di girare sul fianco sinistro, travolge il folletto e scappa.
Pigiama in felpa e maschera idratante: chissà se funziona anche coi topi d'appartamento?!