GLI ALTRI CASSETTI

martedì 20 novembre 2007

Amare considerazioni.

Sono stanca, non mi sento molto bene, rientro adesso da due giorni a Torino, domani devo essere in agenzia alle nove per ripartire ancora fino a venerdì. Non avrei voglia di scrivere, ma di andare a dormire. Potrei farlo ché non campo di blog e, devo dire, che da quando ne ho uno, mi è capitato più volte di indignarmi che di rilassarmi. Potrei farlo, ché – ha ragione Elena (la lettrice di blog) – scrivere non è un obbligo. Tantomeno lo è pubblicare e questo l’ho sempre sostenuto a costo di impopolarità, perciò mi spiace, per esempio, leggere su Linguaggi e Parole che io avrei proposto di pubblicare Randagi attraverso lulu.com, quando dal mio post e dai miei commenti si evince, facilmente, esattamente l’opposto.
Sarò chiara e franca.
Randagi resterà esattamente ciò che è: una raccolta on line. Fare la rete non significa “pubblicare a ogni costo” e pubblicare con lulu.com e con qualsiasi altra forma di Editoria trasversale, per quanto mi riguarda, è “pubblicare a ogni costo”. Alimentare questa forma di editoria non significa dare spazio a nuovi talenti, ma imbastardire ulteriormente il già sovraffollato mercato della scrittura, e penalizzare ancora (qualitativamente ed economicamente) i lettori. Fare la rete significa pubblicare contenuti interessanti attraverso la rete e contribuire alla loro diffusione: se Randagi ti piace lo linki. È scaricabile in pdf che vivono di vita individuale, non serve neppure linkare il mio blog (non sono afflitta da sindrome da clic).
In privato uno scrittore che stimo molto mi scrive “sono lontano anni luce da questo tipo di pubblicazioni”. Condivido pienamente. E fino a quando non saranno in molti a condividerlo ci sarà, inevitabilmente, di che indignarsi sui blog. Quasi tutto, oscenamente, ruota attorno al sapore di sé e attorno al bisogno/desiderio di pubblicare su carta. Pubblicare qualsiasi cosa. Pubblicare con chiunque. E quando qualcosa di buono viene pubblicato ecco che ci si scaglia contro. La pubblicazione di Sappiano le mie parole di sangue, da parte di un Editore come la Rizzoli, avrebbe dovuto essere un risultato comune, una conquista di quel valore tanto osannato che è l’interessamento da parte della grande editoria verso la “letteratura di qualità”. Invece no. Pubblicando con la Rizzoli, la Jones è automaticamente uscita dal ghetto. Tagliata fuori da un sistema che ci vuole inevitabilmente perdenti. Uniti dal dolore e dallo strazio di non essere compresi. Mal comune mezzo gaudio. Ma io non vedo alcuna forma di gaudio, né più provo piacere nello scrivere sul blog giacché i post che ritengo più belli, sono quelli che passano inosservati. E non solo qui. Scrivere di un libro, scrivere che un libro ti è piaciuto, che "ti ha dato”, che “ti appartiene” è nocivo per lo scrittore, a meno che non si tratti di un classico che, di suo, rientra nella sfera culturale dell’intellettuale. Questo è inaudito. Questa è oscenità. Ci si divincola fra un sapore vago di letteratura e un sapore amaro di squallide invidie e scontri che si fanno ostracismo. Si formano piccoli gruppi virtuali in cui ci si alliscia e ci si struscia nella speranza di essere allisciati e strusciati e raggiungere, prima o poi, l’orgasmo della citazione o del link multiplo esponenziato. Indignarsi per tutto ciò non è dato. A indignarsi si resta fottuti. Fottuti da chi? da chi?
Sono stanca, ho la febbre e domani devo comunque partire. In ogni caso, penso che, per un po’, starò lontana dal blog. Almeno fino alla prossima uscita di Randagi on line.

{commenti chiusi}

domenica 18 novembre 2007

Randagi: rimetto a voi i nostri debiti quotidiani. Amen.

Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail da Francesco Giubilei:

Salve, mi chiamo Francesco Giubilei.
Sono il direttore di
Historica
e vorrei farle una proposta.
Ho letto tutti i numeri di Randagi.
Ha mai pensato di farne un'antologia?
Potrebbe pubblicarla con Lulu.com attraverso
Historica Editrice
Mi faccia sapere.
Saluti
Francesco Giubilei
Randagi nasce come antologia on line, con lo scopo ambizioso ma nello stesso tempo umile, di raccogliere “cose buone dalla rete” e con l’idea di essere veicolata sul web, attraverso link non necessariamente al mio Blog: tutti i numeri sono scaricabili in pdf che vivono la loro vita anche individualmente. L’impaginazione è da libro, con tanto di cover e di gabbie di testo, per facilitarne la lettura, la stampa individuale e – perché no? – la raccolta dei fascicoli. Non ho mai pensato a un’eventuale pubblicazione, probabilmente perché non afflitta da tale velleità. L’ansia da pubblicazione, che aleggia sul web, la vivo, personalmente, come terreno di lotte intestine fra un esiguo gruppo di persone che ancora non hanno capito che un centinaio di bloggers [che se la raccontano e se le suonano fra di loro] non dànno notorietà.

Questo lo penso io, però. E Randagi non è “mio”: è di tutti coloro che hanno inviato e inviano un proprio racconto. Perciò propongo di discuterne assieme.
Ringrazio, comunque, Francesco Giubilei per l'attenzione.
(Naturalmente gli ho chiesto l'autorizzazione a pubblicare la sua e-mail.)

sabato 17 novembre 2007

Michele, il dolore, il divertimento: i volti della mafia.

Stanotte ho sognato Michele. Non mi era ancora capitato di sognarlo da quando è morto. Avevamo entrambi ventotto anni, quando è salito su un’auto da cui non è più sceso. Quindi sono trascorsi dodici anni senza che il mio inconscio lo rievocasse. Eppure ci penso spesso a lui. Per esempio mi viene in mente il giorno che ogni adolescente attende con un’ansia che poi non ti spieghi: il mio diciottesimo compleanno. È sempre stato bello, Michele, ma quel giorno lo era più del solito e fece strage di cuori adolescenti. “Tuttomoto” lo chiamavano, Michele, ché adorava correre sulla sua moto e leggere l’omonima rivista. Un vezzo poco usuale fra quelli della mia specie. Non la moto ché faceva figo [togo, dicevamo noi ché anche nel linguaggio cercavamo una nostra identità], ma la lettura, figurarsi abituale, di riviste specializzate. Era popolare, Michele. Ed è nato, come me, in terra di mafia rurale che ha trovato l’unica evoluzione possibile nell’eroina. E all’eroina faceva gioco la popolarità di un adolescente. L’eroina lo reclutò dapprima fra i soldati dello spaccio, poi, inevitabilmente, nella fanteria dei visitors, così li chiamavano quelli della mia specie gli eroinomani che si sbattevano dal mattino alla sera per una dose. Michele è morto senza che nulla di lui ricordasse la sua bellezza. Prima e dopo di Michele sono morti: Giuseppe detto Peppe, Anna Lucia detta Sciusciù, Giuseppe detto Spinello, Gianni detto Il Torinese, Carmela detta Caccà, Concetta detta Oncetta. Sono usciti dal tunnel, così chiamavano il complesso circuito medico-mafioso dell’eroina i media: la Peppa, Tizzone, Frufrù.
Ci sono stati tanti, tantissimi, Peppe, Scisciù, Spinello, Il Torinese, Caccà, Oncetta e qualche Peppa, Tizzone e Frufrù negli anni a venire.
Mi sono passati davanti agli occhi quando facevo volontariato al Sert. Li ho visti urlare e li ho sentiti darmi della puttana se non gli davamo qualche "dose" di metadone da portarsi via. L’alternativa legale al furto, alla prostituzione, al facile espediente del delinquere occasionale. Li ho visti morire di Aids, talvolta.
Poi non li ho visti più.
Poi l’eroina è scomparsa e i Peppe, Scisciù, Spinello… si sono trasformati in paninari con i piedi infilati nelle Timberland e le narici piene di polvere bianca. Le logiche di mercato, la mafia le applica prima di ogni manager del marketing: l’eroina provocava una dipendenza troppo evidente, la “scimmia” era dolorosa e il dolore difficilmente trova un mercato a meno di non trasformarlo in credo religioso, come insegna il marketing della chiesa. La massificazione dei rapporti internazionali, contemporaneamente, facilitava l’ingresso della cocaina attorno alla quale, inconsapevolmente [?], media e informazioni mediche avevano creato l’alone di “santa non dipendenza” oltre a uno “status” corrispondente al “ricco”, al “vip”, al “bello-ricco-dannato” che si accompagnava ai nuovi contenuti veicolati attraverso i mezzi che, parimenti, privilegiavano la bellezza, la ricchezza, l’esagerazione in tutto.
Al dolore la mafia-marketing ha sostituito il ben più allettante divertimento. E mentre si sviluppavano contenuti da vuoto pneumatico e si spogliavano, sempre più, le donne in televisione, si alzavano i volumi nelle discoteche e si insonorizzavano le pareti per consentire di andare avanti col divertimento ad libitum, supportando la pur sempre umana resistenza con pillole magiche, ché anche nell’alchimia la mafia è maestra. E non va sottovalutato il ruolo della psico-mafia, con un osservatorio fra i migliori al mondo in materia di anticipazione delle tendenze; né della info-mafia, in grado di veicolare messaggi che promettono divertimenti certi, mascherati da cronaca nera; né della recluto-mafia capace di assoldare poveri cristi che nulla più hanno da perdere giacché hanno già lasciato quel poco che avevano, le radici, in un “altrove” che non esiste più o forse non è mai esistito.

giovedì 15 novembre 2007

125 pagine di speranza per Gramos

In questi giorni vi sono state varie discussioni su problemi, rete, coraggio, razzismo
Ciò che ho sempre sostenuto, ciò che cerco di insegnare a mia figlia, è che cambiare le cose è possibile: bisogna iniziare a cambiare quei pochi centimetri quadrati di spazio che occupiamo. Spazio del fisico e dell’intelletto. Il cambiamento inizia da noi. Sempre e inevitabilmente.
Uno di questi cambiamenti lo abbiamo vissuto giorno per giorno: inizia con una voce che si alza dal coro della banalità e pronuncia un nome: Benito (che nulla ha a che vedere con “quell’altro”) e poi ne pronuncia un altro: Gramos.
E continua con un progetto: Le fiabe di Gramos.
C’è un presupposto nella mia vita (condivisibile o meno, non è importante, non qui non adesso): un progetto è meglio di un sogno. Per un progetto si lavora e ci si mette in gioco. Così è stato per Sabrina Campolongo. Ci ha creduto, ci ha chiamati a partecipare a un “concorso” che ha surfato fra le aspirazioni di molti bloggers con intelligenza, creando contenuti e non dissapori, creando gioia (parola banale, ma quanta ce ne vorrebbe di questa banalità?), e alla fine dando vita a un libro che nasce con un obiettivo importante: aiutare un bambino ad assicurarsi il suo naturale diritto a un altro giorno.
Un obiettivo che custodisce in sé il sapore amaro della povertà, dell’emarginazione, della sofferenza e il sapore buono della speranza. Nascono con molte responsabilità queste 125 pagine.

LE FIABE DI GRAMOS
Per acquistarlo clicca qui.
€ 11,00 - Tutti gli autori hanno rinunciato ad ogni diritto economico a favore di Gramos.

La presentazione di Remo Bassini:

Tu che mi leggi, ti prego, ascolta. Questo libro è un libro di fiabe, certo, come tanti. Più bello o più brutto, chissà. Non importa, non è questo il punto. Ti ho chiesto, per favore, di ascoltare. Sono un libro ma, dentro di me, c'è una voce che, purtroppo, è un lamento. É di un bimbo piccolo, si chiama Gramos. Lotta per la vita come un eroe. Ascoltalo. Ti sta dicendo Ciao, mi chiamo Gramos, vorrei ridere e giocare ma non posso. Ti sta dicendo Aiutami. Ti sta dicendo anche Ho una brutta malattia, ho paura. Ti sta dicendo Sei gentile a comprare questo libro che altre persone gentili hanno scritto e di cui migliaia di persone gentili, su una cosa chiamata internet, han parlato. Lui è Gramos. É un bambino. Vivrà grazie a tutti voi. E un po' anche a me, che sono solo un piccolo libro contro l'indifferenza.

Le donazioni saranno gestite dall'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Chi si occupa di questo caso è l'Associazione S.o.S. Infanzia nel Mondo Onlus, Via Stazzo Quadro, 52, 00060, Riano (Roma). Chi volesse fare una donazione: c/c bancario 3383 o 3385 Banca di Credito Cooperativo di Riano - abi 08787 cab 39350 cin X. Ricordate la causale: PRO GRAMOS. Se volete maggiori informazioni per la trasparenza o solo per conoscere meglio la storia di Gramos chiamate Miriam (349.1953550) o Antonella (333.9382824) oppure scrivete a: sosinfanzianelmondo@tiscali.it.



mercoledì 14 novembre 2007

A proposito di rete. Ma soprattutto a proposito di coraggio.

Io, talvolta, vedo nessi che altri non vedono. È un mio pregio e un mio limite. Eppure ci sono – mi dico. Ecco, a proposito di quanto ho scritto e avete scritto sul post precedente e a proposito di quanto si è scritto sulla già citata riflessione di Remo Bassini e del suo commento:

«Alla fin fine, io in rete vedo più scontri tra bande e voglia di mettersi in mostra che nella vita reale. Affiorano, anche in rete, dolori, depressioni, storie di vita e di morte. Ma in rete c’è soprattutto un folle connubio. Riemerge la nostra onnipotenza infantile, credo. Che si salda alla sacralità della parola scritta. Dietro il pc possiamo fare tutto. Anche scagliare la nostra ira e le nostre invettive a chi non la pensa come noi.»

Dicevo: mi è venuta in mente una bella discussione con Orasesta (T.) nei commenti ad un altro mio post che non serve citare perché non è importante: le riflessioni sono trasversali al post. Ciò che ne emerge, credo, è la differenza fra arroganza e coraggio, anche in rete.

Eccola:

ORASESTA: (…) Ecco, questo è un punto che ultimamente - in altre discussioni, anche - mi ha turbato. Ripeto, indipendentemente dalla persona e dal "caso", se vuoi, diciamo che "generalizzando" ritengo incompatibile con una qualche responsabilità che un intellettuale (abbiamo il coraggio, per la miseria, di usare non la parola ma il concetto benché difficilmente definibile!), dicevo, ritengo incompatibile con il ruolo di un intellettuale dire di avere il coraggio per affermare cose che sono nel più diffuso senso comune, fin dentro le "chiacchiere da bar", aderendo ad una "fotografia" falsa (falsificata) della società, anzi rafforzandola. Chi lo fa, contribuisce a creare un immaginario di "accerchiamento" da parte di un "nemico" o quanto meno avversario nelle cui file potremmo essere collocate io, tu...Ma dimmi se è "intellettualmente onesto"?!

ASSU: (…) Come te, sono convinta che il coraggio sia qualcosa di diverso dall’esprimere pubblicamente stereotipi, luoghi comuni e pensieri variamente diffusi che si annidano nelle menti delle masse, pronti a emergere/riemergere alla prima goccia di rugiada. Se così fosse, dovremmo ritenere coraggiosi i personaggi alla Sgarbi che animano le trasmissioni televisive. Chi lo fa – talvolta inconsapevolmente, spinto dall’innocente convinzione di essere un cuor di leone o, semplicemente, in questo “nuovo” contesto, dal fatto di non conoscere le dinamiche di Internet che ancora soffre lo strazio dell’anonimato - non consente una sana evoluzione dei pensieri. Crea intercapedini vuote fra una fase e l’altra della discussione. Bolle d’aria che non si riempiranno mai di contenuti e che presto o tardi ritorneranno. E, come dici, contribuisce a creare quell’immaginario di “accerchiamento”, giacché l’atteggiamento di chi si rifiuta di lasciare incastrato il dito nella piaga è visto come ostracismo e non come salto di qualità. Peccato!

SF: Perché credete che il coraggio debba avere a che fare con gli intellettuali?

ORASESTA: Anche l'edicolante (chiacchierone...) sotto casa mia esercita un'influenza su coloro che intrattiene con le "notizie del giorno".Coloro che - più o meno professionalmente - svolgono un'attività che è finalizzata alla "manipolazione" del sapere o dell'immaginario altrui, forse hanno qualche responsabilità in più. Ho tentato di dire che ritengo irresponsabile da parte di costoro far apparire "coraggioso" ciò che in realtà è di assoluto "senso comune".Dando per acquisito (ma forse a volte così non è?) che abbiano (che abbiano i mezzi per avere) una visione oggettiva, acuta per il "particolare" e sintetica per il "generale"; che abbiano (che possano, debbano avere) una maggiore consapevolezza nel maneggiare un materiale delicato come sono le parole.

ASSU: Tempo fa, lessi una citazione attribuita a Giacomo Leopardi: chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo. Non so, in tutta onestà, se sia o meno di Leopardi, non ricordo di averla trovata personalmente. In ogni caso, parto proprio dal coraggio di ridere per andare più a fondo. Si sentono spesso espressioni come: il coraggio di dire, il coraggio di fare, il coraggio delle idee, il coraggio di vivere, il coraggio di dire basta, il coraggio di dire no, eccetera. Come se tutto quello che facciamo debba, per forza, essere supportato da “coraggio” e senza questo attributo non vi sia alcuna forma di riconoscimento. Io trovo molto interessante la questione posta da Orasesta perché penso che sia necessario scernere e fare chiarezza fra ciò che è quotidianità intellettiva e ciò che è riflessione intellettuale. La prima, a mio avviso, si inscrive nel processo di comunicazione quotidiana (salutare la signora del piano di sopra, osservare i movimenti ripetuti e famigliari delle persone che incrociamo nel nostro percorso abituale, fermarsi a comprare il giornale, scambiare qualche parola con l’edicolante o con la commessa del negozio sotto casa, dire buongiorno entrando in ufficio, accendere il computer, leggere la posta e rispondere, eccetera); la seconda, invece, pur non discostandosi da ciò che è quotidianità, si eleva a un gradino più alto, e si pone domande sul perché delle cose e delle azioni. La riflessione è propria dell’intellettuale ed è, a mio avviso, l’unica vera forma di coraggio, sempre che il risultato non sia il mero rimuginare. In questo senso l’intellettuale è chiamato a svolgere un ruolo di ponte fra ciò che è luogo comune e ciò che è frutto di un pensiero più attento che va oltre la banalità del quotidiano e si spinge alla formulazione di idee proprie che pur partendo da una radice in comune con il pensiero quotidiano è capace di maggiore elaborazione e di indurre a sua volta alla riflessione.

ORASESTA: Il coraggio come "propensione", "tensione" cioè "tendere a..." Che poi viene da "cuore", se non sbaglio. Dal cuore dove spesso "poeticamente" collochiamo i segni distintivi della nostra umanità.Bello. Evochi una figura intellettuale che abbia a che fare con il cuore. Mi piace assai.

martedì 13 novembre 2007

Io non ho problemi.

Oggi, al bar, due uomini e una donna, tutti sulla quarantina o giù/su di lì, forse amici a giudicare dal tono confidenziale, discutevano circa la misurabilità di un problema.
Non esistono problemi grandi e problemi piccoli. Esistono problemi. Se uno sta bene di salute e di soldi, vivrà come enorme il problema dell’auto ferma per due giorni, in riparazione -
afferma il più alto dei tre, con un cappotto blu chiuso su una giacca dal taglio moderno ed elegante, come si intuisce dal modello dei pantaloni grigio scuro che coprono fino a mezzo tacco la scarpa di pelle morbida.
L’amico biondo ha una faccia nordica, la pelle è cotta dal finto sole delle lampade. Sciorina un nome che non colgo a sostegno della sua teoria: Ognuno misura i problemi secondo le sue esperienze.
La donna ha due occhi azzurri che catturano l’attenzione. È bella, ma i suoi occhi lo sono molto più di lei. Nonostante i tacchi è molto piccola di statura. L’atteggiamento è da bambola, la voce no. La voce è limpida e il tono deciso. Non pigola – penso – rispondendo a me stessa ché m’ero fatta l’idea di una vocina impostata da bambina. Io non ho problemi – dice con sicurezza.
Io non ho problemi. Mi sono portata con me quell’affermazione. Quanti sanno dirlo?
Poi, stasera, leggo questa riflessione di Remo Bassini.
Penso che i problemi siano misurabili oggettivamente. Vi sono grossi problemi e piccoli problemi, solo che non ce ne rendiamo conto quando il macigno pesa sulle nostre teste. La misurabilità soggettiva del problema è espressione dell’egoismo e dell’incapacità di guardare l’altro, di rispettarlo. Solo la morte ci ammorbidisce, ché la morte è spazzina, ché la morte ci fa paura.

giovedì 8 novembre 2007

Cose di questi giorni.

A me Torino piace molto. Neppure la stanchezza per riunioni estenuanti è riuscita a togliermi il gusto delle luci artistiche che si sono accese contemporaneamente alle 19.30 del 6 novembre. Neppure il mio tentativo di impegnarmi e auto-sensibilizzarmi verso il risparmio energetico. Solo un velo di malinconia per la morte di un giornalista che, al di là del colore politico, rappresenta un grande esempio di giornalismo libero. E la speranza che tutto il coccodrillame di questi giorni non si esaurisca nella sola nota di rimpianto. Utopia? Forse sì, ma talvolta non resta che quella per dare carburante alla speranza.

Sto leggendo “Baffi di Cacao” di Lina Dettori, nota ai blogger come Eva Carriego. L’ho già scritto e lo ripeto con convinzione: Eva sei brava. Del libro, vi parlerò quando avrò finito di leggerlo e lo finirò presto ché il fiato è sospeso sin dalla prima pagina, e l’apnea non lascia spazio a distrazioni. In questo momento sono sulla soglia di una porta, col ferma-immagine su un pugno ben assestato, e sto vagando in un tempo che sfida il tempo, in un intreccio di personaggi che già mi appartengono.

Qualche riflessione sull’editoria, sui nuovi scrittori, su nuovi canali di distribuzione si fa strada. Forse ne parlerò. Forse no ché è già tema abusato.

Stamattina, a Cuneo, esco dall’Hotel e mi ritrovo in una strada diversa da quella di ieri sera. La stanchezza e la notte nascondevano una familiarità con l’Emilia che amo, con quei portici bassi di Bologna soprattutto, ma anche di ogni città emiliana e della mia Parma. Mi manca, Parma. Me ne accorgo quando sono soprapensiero. Nello sfondo, a destra del mio sguardo, le Alpi. Nitide.
Su Arteinsieme, il sito di Renzo Montagnoli che riunisce molti autori in un variegato intreccio letterario, il mio racconto: Brindisi. Lo definisco racconto perché non vi è un modo letterario diverso per descrivere uno stato d’animo, la preghiera, l’urlo, la rabbia.

Sempre su Arteinsieme, l’intervista.

lunedì 5 novembre 2007

Femminilità: il packaging delle nuove bambine.


[Dedico questo post al coraggio di Emilia.]

Lo so che ne ho già parlato, però oggi, in un intermezzo inatteso (pausa pranzo che in genere salta) ho rigirato fra le mani e risfogliato il libro che ho finito di leggere ieri sera. Le parole son venute da sé, spalmate sul portatile acceso. Non è nelle mie abitudini recensire libri, e neppure questo post è una recensione. Seguo i miei pensieri e li confronto: è questo il mio rapporto coi libri.

Ancora dalla parte delle bambine
, ripropone, in una chiave giornalistica sì, ma con una riflessione personale che mi è piaciuta molto, la condizione attuale della bambina e della futura donna che diventerà. Oggi. Uno spaccato sulla differenziazione dei generi, che mai come adesso, non smetterò mai di scriverlo, produce un fraintendimento fra valori propri e desideri indotti. Loredana Lipperini, però, è andata oltre, ponendosi quella domanda che più volte ho posto: di chi è la colpa: dei media?, del marketing?, della pubblicità? Odio profondamente la parola colpa. La odio perché è dura, perché ti trafigge subdolamente come la lama di un pugnale affilato: taglia la carne in un lampo, e il dolore lo senti solo quando il pugnale si ritrae, con la consapevolezza dello smembramento di vene, di muscoli, di tendini… Eppure vi è colpa se oggi [più che in passato] le donne confondono la mercificazione mediatica del loro corpo con la libertà di essere se stesse. Una colpa che non può e non deve essere attribuita al canale di distribuzione, quanto a chi fa i contenuti, a chi li immette in un circuito che sempre più abbassa l’età del target, traballando continuamente fra il sapore di figa e la cenerentolità femminile. Basta leggere le interviste che vengono fatte agli uomini e quelle che vengono fatte alle donne: agli uomini si domanda di politica, di lavoro, di velocità e agilità; alle donne di amori, di leziose visioni della vita, di abilità (che è diversa dall’agilità) e di esprimere qualche piccola cattiveria. [La ricetta è servita. Format lo chiamiamo noi brutti e cattivi della pubblicità.] E va attribuita a chi questo lo consente e a chi resta inerme [vittima, si dirà] e si rifugia, sovente, nel “non sono tutti uguali”. Non sono tutti uguali chi? gli uomini? Convengo, ve ne sono di illuminati, sebbene anche loro, in fondo, subiscano il fascino di una femminilità grintosa che il più delle volte naufraga nella libertà sessuale intesa come facilitazione della caccia, nell’accettazione “prone” di una caduta del femminismo, nella complicità che dà ragione alla loro innegabile [?] superiorità, foss'anche solo fisica. Se gli uomini non sono tutti uguali, ne deriva forse che lo siano le donne? Tutte uguali come? Tutte puttane? No, è finita, secondo me, anche l’epoca di quello stereotipo, sebbene, ancora, qualche conservatore, tiri fuori a difesa del genere l’asso nella manica: Se parli così allora ti posso rispondere che tutte le donne sono puttane. No, non mi puoi rispondere così per due motivi: il primo è che se t’incontro e me lo dici a due centimetri dal mio naso ti spacco la faccia; il secondo è che sai benissimo che non è vero e quindi non fare lo stronzo e usala questa cazzo d’intelligenza che tutti i sondaggi e le statistiche attribuiscono al genere maschile!
Il dato principale è che siamo “tutti uguali”, ma differenziati per genere. Però nella differenziazione vi è un’intesa perfetta: quel buco è prezioso, per gli uomini e per le donne. E allora la pubblicità che fa? Ci analizza, ci conosce, ci riflette. La pubblicità “lo sa”, come ho già scritto e come meglio scrive Anna Maria Testa in una delle varie testimonianze che si trovano in Ancora dalla parte delle bambine. Lo sa e cavalca l’onda per assolvere al suo compito che non è sociale-educativo ma puramente commerciale: vendere. Vendere a chi è già convinto di essere inscritto in quel target. Non riuscirei a vendervi un sapone se non foste già convinti del bisogno di lavarvi, non riuscirei a vendervi “quel” sapone se non foste già convinti della necessità di mantenere bella, giovane e tonica la vostra pelle.
Non riuscirebbe, la pubblicità, a vendere sesso se non fossimo già convinti che quel buco è prezioso. Una preziosità che la Chiesa chiama maternità, ma non lacera e non sporca nella Sempre Vergine Maria, e di cui consente il possesso a un solo uomo. Una preziosità laica che si fa mezzo: vascello per migliaia di informazioni devianti che lasciano alla donna il solo spazio della femminilità: packaging indispensabile, il più possibile lustro e remissivo, di una remissività che non è più obbedienza ma presunta convinzione di scelta. Sono convinte, le donne, che non sono gli uomini a usare il loro corpo, ma, al contrario, loro stesse a servirsene (giacché ce l’hanno ed è così prezioso che serva alla donna!). Hanno anche un cervello – oramai non è più contestato – però è essenziale che non si dimentichino del corpo. Sarà quello ad assicurarle il futuro sia esso professionale o amoroso. Il buco è mio e lo gestisco io, scrivevano sui muri le femministe. Peccato che sia stato gestito secondo il format maschile.

In un commento al precedente post “La parola al sesso forte”, ho scritto, a proposito di un pezzo indicato e ritenuto, da donne e uomini, lo specchio della femminilità, che non lo condivido, per quanto scritto bene. Non lo condivido perché sono proprio questi contenuti, mutuati da una letteratura ghettizzante, ad accrescere la convinzione, nella bambina, che la cura della casa, dei figli, del proprio uomo nel quale rispecchiarsi al risveglio e dal quale ottenere parole di plauso e gratificazione “personale” [?], siano il proprio destino, inscritto in quella formidabile invenzione maschile che è la femminilità.

Smettiamola, vi prego, di farci convincere che il mondo rosa dal quale abbiamo cercato di tirarci fuori, sia, in realtà, tutto quello che desideriamo. Il libro leggetelo: per molti potrebbe essere l’inizio di una riflessione, per altri – come nel mio caso – si potrebbe consolidare la certezza dell’esistenza di altre donne (e uomini) che vanno al di là di tette e culi, pur avendoli. Troverete molte citazioni di altri libri: una bibliografia che, se non altro per amore di confronto, vi suggerisco. Fra tutti, come ho già, varie volte, ripetuto: Il secondo sesso. Troverete anche molti website e blog. E testimonianze interessantissime (non solo di donne).

Ancora dalla parte delle bambine: leggetelo, spegnete la televisione e discutetene con le vostre bambine e i vostri bambini (anche con loro).

domenica 4 novembre 2007

Il quarto numero...


…di Randagi, ovviamente.


Sono di fretta, domani parto e starò via tutta la settimana.

Anche in questo quarto numero tre racconti di tre bloggers:
Jane Bowie: Peneleope è partita, Penelope è tornata.
Sabrina Campolongo: Nessuno è entrato.
Diego D’Andrea: La ballata dell’uomo nuvola.

Randagi#4 è
scaricabile in formato pdf (338Kb) sia direttamente dal post, sia dalla colonna a destra.

L’invito, come sempre, è a cliccare, scaricare, visualizzare, stampare o no, in ogni caso a leggere i racconti.

I numeri precedenti:

Randagi#1, con i contributi di Remo Bassini, Babsi Jones, Assunta Altieri
Randagi#2, con i contributi di emi, Eva Carriego, Renzo Montagnoli
Randagi#3, con i contributi di Beppe Sebaste, Cinzia Pierangelini, Ilaria Ubaldi

Accogliendo il suggerimento di Renzo, da oggi inserisco nel post di “lancio” anche i sintetici profili degli autori. Aggiornerò l'elenco appena avrò un attimo.