Loredana Lipperini annuncia il suo nuovo e, da quanto leggo, interessante libro: Ancora dalla parte delle bambine. Faccio una doverosa premessa: ciò che segue non è in alcun modo legato al libro che non ho ancora letto giacché uscirà il 31 ottobre, ma pensieri scaturiti dalla presentazione che trovate qui e che, in parte riporto.
Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. (…) Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni: diventare ballerine, estetiste, infermiere, madri. Questo è il mondo delle nuove bambine.
Insomma, nulla sarebbe cambiato da quando alla povera Gertrude (la monaca di Monza) venivano dati santini e similari con cui trastullarsi.
Il ballo inteso come grazia e sinuosità dei movimenti, l’estetica, la tendenza a curare, l’essere madre sono parte integrante dell’essere donna a cui non ho nessuna voglia di rinunciare. Non credo che il raggiungimento della pari dignità – per quanto mi riguarda più importante dell’uguaglianza cui spesso si anela – debba comportare la perdita di ciò che è caratteristica propria della femminilità. Che ciò non debba diventare né fine né mezzo è doverosamente condivisibile, ma è altrettanto doveroso riconoscere peculiarità femminili che sono parte del nostro modo di pensare e perfino di essere. Il rischio, altrimenti, è quello di sentirci gratificate dall’essere considerate “donne con le palle” come già più volte e da più parti contestato. Una volta, un caro amico, di fronte a una mia decisiva presa di posizione si è espresso così: Che uomo che è questa ragazza! (Massimo De Nardo, che legge questo blog, lo ricorderà sicuramente). Questa non è pari dignità, care donne, perché, in tutta franchezza, di andare in giro a dare pizzicotti sul sedere non ho nessuna voglia (e per cortesia evitiamo commenti del tipo: non tutti gli uomini lo fanno e blablabla ché lo so). Ciò che desidero, semmai, è avere il giusto riconoscimento per ciò che faccio anche se lo faccio con il rossetto. Né più né meno. Perciò sono sempre stata profondamente contraria alle quote rosa che trovo offensive perché non si può pensare – non più porcamiseria! – di esserci per percentuale di esistenza.
Negli anni settanta, Elena Gianini Belotti raccontò come l’educazione sociale e culturale all’inferiorità femminile si compisse nel giro di pochi anni, dalla nascita all’ingresso nella vita scolastica. Le cose non sono cambiate, anche se le apparenze sembrano andare nella direzione contraria. (…)Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. E bisogna cominciare con l’interrogarsi sulle bambine: perché è ancora una volta negli anni dell’infanzia che le donne vengono indotte a consegnarsi a una docilità oggi travestita da rampantismo, a una certezza di subordine che persiste, e trova forme nuove persino in territori dove l’identità è fluida, e fluidissimi dovrebbero essere i generi, come il web.
È questo – ancora e inaccettabilmente – il punto. Forse un po’ di cose sono realmente cambiate, solo che gli adulti restano troppo spesso imbrigliati nella rete dell’onnipotente sistema valutativo che, sovente, dimentica che i contenitori restano vuoti quando nessuno li riempie. E quelle donne che volevano tutto si sono scontrate con una realtà complessa, perché non è facile – ammettiamolo – essere donne in carriera, buone madri, mogli, infermiere… Ci sarà pure un motivo se l’uomo, da sempre, si è ritagliato un ruolo e ci si è accasato (e anche qui, so bene che vi sono le ripartizioni dei compiti, che anche loro vanno a prendere i figli a scuola e tutte quelle cose che, però, fanno per sentirsi e sentirsi definiti evoluti/moderni non perché lo ritengano parte integrante della loro esistenza). Quelle donne, molto semplicemente, hanno – spesso – parcheggiato i figli davanti al mondo scintillante della televisione, della musica commerciale, della letteratura alla Melissa P. Quelle donne (che siamo noi, non ce lo dimentichiamo perché il rischio è quello di salire sul pulpito dell’opinionismo scevro di ogni responsabilità) hanno impegnato il loro tempo a costruire un presente che le vedesse uguali agli uomini. E qui ritorno al concetto di dignità: non è l’uguaglianza fine a se stessa che ci rende libere, ma la pari dignità. Essere donne non significa essere diverse, è tempo che ce lo mettiamo in testa. Essere donne significa essere donne. Non dobbiamo giustificare ciò che siamo per nascita. Se vi è un diritto da difendere è quello di poter essere libere di essere donne, senza per questo dover giustificare il desiderio o meno di maternità, lo scrivere, l’essere manager, l’avere successo, il volerci sentire belle, la lacrima facile, il web, la scelta di essere madre e moglie, eccetera.
Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. (…) Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni: diventare ballerine, estetiste, infermiere, madri. Questo è il mondo delle nuove bambine.
Insomma, nulla sarebbe cambiato da quando alla povera Gertrude (la monaca di Monza) venivano dati santini e similari con cui trastullarsi.
Il ballo inteso come grazia e sinuosità dei movimenti, l’estetica, la tendenza a curare, l’essere madre sono parte integrante dell’essere donna a cui non ho nessuna voglia di rinunciare. Non credo che il raggiungimento della pari dignità – per quanto mi riguarda più importante dell’uguaglianza cui spesso si anela – debba comportare la perdita di ciò che è caratteristica propria della femminilità. Che ciò non debba diventare né fine né mezzo è doverosamente condivisibile, ma è altrettanto doveroso riconoscere peculiarità femminili che sono parte del nostro modo di pensare e perfino di essere. Il rischio, altrimenti, è quello di sentirci gratificate dall’essere considerate “donne con le palle” come già più volte e da più parti contestato. Una volta, un caro amico, di fronte a una mia decisiva presa di posizione si è espresso così: Che uomo che è questa ragazza! (Massimo De Nardo, che legge questo blog, lo ricorderà sicuramente). Questa non è pari dignità, care donne, perché, in tutta franchezza, di andare in giro a dare pizzicotti sul sedere non ho nessuna voglia (e per cortesia evitiamo commenti del tipo: non tutti gli uomini lo fanno e blablabla ché lo so). Ciò che desidero, semmai, è avere il giusto riconoscimento per ciò che faccio anche se lo faccio con il rossetto. Né più né meno. Perciò sono sempre stata profondamente contraria alle quote rosa che trovo offensive perché non si può pensare – non più porcamiseria! – di esserci per percentuale di esistenza.
Negli anni settanta, Elena Gianini Belotti raccontò come l’educazione sociale e culturale all’inferiorità femminile si compisse nel giro di pochi anni, dalla nascita all’ingresso nella vita scolastica. Le cose non sono cambiate, anche se le apparenze sembrano andare nella direzione contraria. (…)Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. E bisogna cominciare con l’interrogarsi sulle bambine: perché è ancora una volta negli anni dell’infanzia che le donne vengono indotte a consegnarsi a una docilità oggi travestita da rampantismo, a una certezza di subordine che persiste, e trova forme nuove persino in territori dove l’identità è fluida, e fluidissimi dovrebbero essere i generi, come il web.
È questo – ancora e inaccettabilmente – il punto. Forse un po’ di cose sono realmente cambiate, solo che gli adulti restano troppo spesso imbrigliati nella rete dell’onnipotente sistema valutativo che, sovente, dimentica che i contenitori restano vuoti quando nessuno li riempie. E quelle donne che volevano tutto si sono scontrate con una realtà complessa, perché non è facile – ammettiamolo – essere donne in carriera, buone madri, mogli, infermiere… Ci sarà pure un motivo se l’uomo, da sempre, si è ritagliato un ruolo e ci si è accasato (e anche qui, so bene che vi sono le ripartizioni dei compiti, che anche loro vanno a prendere i figli a scuola e tutte quelle cose che, però, fanno per sentirsi e sentirsi definiti evoluti/moderni non perché lo ritengano parte integrante della loro esistenza). Quelle donne, molto semplicemente, hanno – spesso – parcheggiato i figli davanti al mondo scintillante della televisione, della musica commerciale, della letteratura alla Melissa P. Quelle donne (che siamo noi, non ce lo dimentichiamo perché il rischio è quello di salire sul pulpito dell’opinionismo scevro di ogni responsabilità) hanno impegnato il loro tempo a costruire un presente che le vedesse uguali agli uomini. E qui ritorno al concetto di dignità: non è l’uguaglianza fine a se stessa che ci rende libere, ma la pari dignità. Essere donne non significa essere diverse, è tempo che ce lo mettiamo in testa. Essere donne significa essere donne. Non dobbiamo giustificare ciò che siamo per nascita. Se vi è un diritto da difendere è quello di poter essere libere di essere donne, senza per questo dover giustificare il desiderio o meno di maternità, lo scrivere, l’essere manager, l’avere successo, il volerci sentire belle, la lacrima facile, il web, la scelta di essere madre e moglie, eccetera.
Troppe volte mi sono sentita dire: tu hai il pragmatismo di un uomo. Non lo sopporto! Non è un complimento. Tu sei pragmatica, è sufficiente.