GLI ALTRI CASSETTI

martedì 20 novembre 2007

Amare considerazioni.

Sono stanca, non mi sento molto bene, rientro adesso da due giorni a Torino, domani devo essere in agenzia alle nove per ripartire ancora fino a venerdì. Non avrei voglia di scrivere, ma di andare a dormire. Potrei farlo ché non campo di blog e, devo dire, che da quando ne ho uno, mi è capitato più volte di indignarmi che di rilassarmi. Potrei farlo, ché – ha ragione Elena (la lettrice di blog) – scrivere non è un obbligo. Tantomeno lo è pubblicare e questo l’ho sempre sostenuto a costo di impopolarità, perciò mi spiace, per esempio, leggere su Linguaggi e Parole che io avrei proposto di pubblicare Randagi attraverso lulu.com, quando dal mio post e dai miei commenti si evince, facilmente, esattamente l’opposto.
Sarò chiara e franca.
Randagi resterà esattamente ciò che è: una raccolta on line. Fare la rete non significa “pubblicare a ogni costo” e pubblicare con lulu.com e con qualsiasi altra forma di Editoria trasversale, per quanto mi riguarda, è “pubblicare a ogni costo”. Alimentare questa forma di editoria non significa dare spazio a nuovi talenti, ma imbastardire ulteriormente il già sovraffollato mercato della scrittura, e penalizzare ancora (qualitativamente ed economicamente) i lettori. Fare la rete significa pubblicare contenuti interessanti attraverso la rete e contribuire alla loro diffusione: se Randagi ti piace lo linki. È scaricabile in pdf che vivono di vita individuale, non serve neppure linkare il mio blog (non sono afflitta da sindrome da clic).
In privato uno scrittore che stimo molto mi scrive “sono lontano anni luce da questo tipo di pubblicazioni”. Condivido pienamente. E fino a quando non saranno in molti a condividerlo ci sarà, inevitabilmente, di che indignarsi sui blog. Quasi tutto, oscenamente, ruota attorno al sapore di sé e attorno al bisogno/desiderio di pubblicare su carta. Pubblicare qualsiasi cosa. Pubblicare con chiunque. E quando qualcosa di buono viene pubblicato ecco che ci si scaglia contro. La pubblicazione di Sappiano le mie parole di sangue, da parte di un Editore come la Rizzoli, avrebbe dovuto essere un risultato comune, una conquista di quel valore tanto osannato che è l’interessamento da parte della grande editoria verso la “letteratura di qualità”. Invece no. Pubblicando con la Rizzoli, la Jones è automaticamente uscita dal ghetto. Tagliata fuori da un sistema che ci vuole inevitabilmente perdenti. Uniti dal dolore e dallo strazio di non essere compresi. Mal comune mezzo gaudio. Ma io non vedo alcuna forma di gaudio, né più provo piacere nello scrivere sul blog giacché i post che ritengo più belli, sono quelli che passano inosservati. E non solo qui. Scrivere di un libro, scrivere che un libro ti è piaciuto, che "ti ha dato”, che “ti appartiene” è nocivo per lo scrittore, a meno che non si tratti di un classico che, di suo, rientra nella sfera culturale dell’intellettuale. Questo è inaudito. Questa è oscenità. Ci si divincola fra un sapore vago di letteratura e un sapore amaro di squallide invidie e scontri che si fanno ostracismo. Si formano piccoli gruppi virtuali in cui ci si alliscia e ci si struscia nella speranza di essere allisciati e strusciati e raggiungere, prima o poi, l’orgasmo della citazione o del link multiplo esponenziato. Indignarsi per tutto ciò non è dato. A indignarsi si resta fottuti. Fottuti da chi? da chi?
Sono stanca, ho la febbre e domani devo comunque partire. In ogni caso, penso che, per un po’, starò lontana dal blog. Almeno fino alla prossima uscita di Randagi on line.

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