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mercoledì 14 novembre 2007

A proposito di rete. Ma soprattutto a proposito di coraggio.

Io, talvolta, vedo nessi che altri non vedono. È un mio pregio e un mio limite. Eppure ci sono – mi dico. Ecco, a proposito di quanto ho scritto e avete scritto sul post precedente e a proposito di quanto si è scritto sulla già citata riflessione di Remo Bassini e del suo commento:

«Alla fin fine, io in rete vedo più scontri tra bande e voglia di mettersi in mostra che nella vita reale. Affiorano, anche in rete, dolori, depressioni, storie di vita e di morte. Ma in rete c’è soprattutto un folle connubio. Riemerge la nostra onnipotenza infantile, credo. Che si salda alla sacralità della parola scritta. Dietro il pc possiamo fare tutto. Anche scagliare la nostra ira e le nostre invettive a chi non la pensa come noi.»

Dicevo: mi è venuta in mente una bella discussione con Orasesta (T.) nei commenti ad un altro mio post che non serve citare perché non è importante: le riflessioni sono trasversali al post. Ciò che ne emerge, credo, è la differenza fra arroganza e coraggio, anche in rete.

Eccola:

ORASESTA: (…) Ecco, questo è un punto che ultimamente - in altre discussioni, anche - mi ha turbato. Ripeto, indipendentemente dalla persona e dal "caso", se vuoi, diciamo che "generalizzando" ritengo incompatibile con una qualche responsabilità che un intellettuale (abbiamo il coraggio, per la miseria, di usare non la parola ma il concetto benché difficilmente definibile!), dicevo, ritengo incompatibile con il ruolo di un intellettuale dire di avere il coraggio per affermare cose che sono nel più diffuso senso comune, fin dentro le "chiacchiere da bar", aderendo ad una "fotografia" falsa (falsificata) della società, anzi rafforzandola. Chi lo fa, contribuisce a creare un immaginario di "accerchiamento" da parte di un "nemico" o quanto meno avversario nelle cui file potremmo essere collocate io, tu...Ma dimmi se è "intellettualmente onesto"?!

ASSU: (…) Come te, sono convinta che il coraggio sia qualcosa di diverso dall’esprimere pubblicamente stereotipi, luoghi comuni e pensieri variamente diffusi che si annidano nelle menti delle masse, pronti a emergere/riemergere alla prima goccia di rugiada. Se così fosse, dovremmo ritenere coraggiosi i personaggi alla Sgarbi che animano le trasmissioni televisive. Chi lo fa – talvolta inconsapevolmente, spinto dall’innocente convinzione di essere un cuor di leone o, semplicemente, in questo “nuovo” contesto, dal fatto di non conoscere le dinamiche di Internet che ancora soffre lo strazio dell’anonimato - non consente una sana evoluzione dei pensieri. Crea intercapedini vuote fra una fase e l’altra della discussione. Bolle d’aria che non si riempiranno mai di contenuti e che presto o tardi ritorneranno. E, come dici, contribuisce a creare quell’immaginario di “accerchiamento”, giacché l’atteggiamento di chi si rifiuta di lasciare incastrato il dito nella piaga è visto come ostracismo e non come salto di qualità. Peccato!

SF: Perché credete che il coraggio debba avere a che fare con gli intellettuali?

ORASESTA: Anche l'edicolante (chiacchierone...) sotto casa mia esercita un'influenza su coloro che intrattiene con le "notizie del giorno".Coloro che - più o meno professionalmente - svolgono un'attività che è finalizzata alla "manipolazione" del sapere o dell'immaginario altrui, forse hanno qualche responsabilità in più. Ho tentato di dire che ritengo irresponsabile da parte di costoro far apparire "coraggioso" ciò che in realtà è di assoluto "senso comune".Dando per acquisito (ma forse a volte così non è?) che abbiano (che abbiano i mezzi per avere) una visione oggettiva, acuta per il "particolare" e sintetica per il "generale"; che abbiano (che possano, debbano avere) una maggiore consapevolezza nel maneggiare un materiale delicato come sono le parole.

ASSU: Tempo fa, lessi una citazione attribuita a Giacomo Leopardi: chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo. Non so, in tutta onestà, se sia o meno di Leopardi, non ricordo di averla trovata personalmente. In ogni caso, parto proprio dal coraggio di ridere per andare più a fondo. Si sentono spesso espressioni come: il coraggio di dire, il coraggio di fare, il coraggio delle idee, il coraggio di vivere, il coraggio di dire basta, il coraggio di dire no, eccetera. Come se tutto quello che facciamo debba, per forza, essere supportato da “coraggio” e senza questo attributo non vi sia alcuna forma di riconoscimento. Io trovo molto interessante la questione posta da Orasesta perché penso che sia necessario scernere e fare chiarezza fra ciò che è quotidianità intellettiva e ciò che è riflessione intellettuale. La prima, a mio avviso, si inscrive nel processo di comunicazione quotidiana (salutare la signora del piano di sopra, osservare i movimenti ripetuti e famigliari delle persone che incrociamo nel nostro percorso abituale, fermarsi a comprare il giornale, scambiare qualche parola con l’edicolante o con la commessa del negozio sotto casa, dire buongiorno entrando in ufficio, accendere il computer, leggere la posta e rispondere, eccetera); la seconda, invece, pur non discostandosi da ciò che è quotidianità, si eleva a un gradino più alto, e si pone domande sul perché delle cose e delle azioni. La riflessione è propria dell’intellettuale ed è, a mio avviso, l’unica vera forma di coraggio, sempre che il risultato non sia il mero rimuginare. In questo senso l’intellettuale è chiamato a svolgere un ruolo di ponte fra ciò che è luogo comune e ciò che è frutto di un pensiero più attento che va oltre la banalità del quotidiano e si spinge alla formulazione di idee proprie che pur partendo da una radice in comune con il pensiero quotidiano è capace di maggiore elaborazione e di indurre a sua volta alla riflessione.

ORASESTA: Il coraggio come "propensione", "tensione" cioè "tendere a..." Che poi viene da "cuore", se non sbaglio. Dal cuore dove spesso "poeticamente" collochiamo i segni distintivi della nostra umanità.Bello. Evochi una figura intellettuale che abbia a che fare con il cuore. Mi piace assai.