GLI ALTRI CASSETTI

martedì 31 luglio 2007

Essere scrittori.

Troppo spesso si parla di editoria, con speranza, con cinismo, con vittimismo, con arroganza, con saccenza, con profonda conoscenza, con invadenza, con invidia… ma poco si riflette su chi è lo scrittore. Scrittore non si nasce (il talento è un’altra cosa), scrittori si diventa. Lo si diventa sperimentando, talvolta provocando, talvolta stupendo, e tante volte sbagliando. Questo è l’esercizio quotidiano dello scrittore, secondo me. La nuova editoria a pagamento ha annientato questo atteggiamento, da un lato umile e dall'altro da guerriero fiero, che lo scrittore deve avere, al di là del genere che preferisce (se scritto bene, un libro troverà comunque il suo pubblico). Penso che l’abbia annientato perché oggi anche lo scribacchino si pensa scrittore e sin dal primo libro non accetta di mettersi in discussione, non accetta un no, non rivede ciò che ha scritto: semplicemente “lo pubblica lo stesso”. Non discuto sul fatto che fra i “libri ad ogni costo” possa esserci del buono e possa celarsi del talento, ma temo che questa nuova prassi faccia dimenticare la sperimentazione, la necessità di cancellare, ritornare indietro, riscrivere. Sono stata cresciuta da una donna che non sapeva neppure scrivere la parola “femminismo”, non sapeva scrivere, non sapeva leggere. Eppure mi ha insegnato una cosa fondamentale e me l'ha insegnata a prescindere dal mio essere maschio o femmina: essere produttivi, attivi, mettersi in discussione, sperimentare i propri atteggiamenti e correggerli anche contro l'orgoglio quando sono sbagliati. Lei mi diceva sempre: devi sputare sangue sulle cose che fai, solo così le potrai ritenere tue e se ti sembra che gli altri non ti capiscano e non ti apprezzino è perché non hai fatto abbastanza. Di qui alla convinzione che tocchi sputare sangue su ciò che si scrive il passo è breve. Perciò io apprezzo le persone che fanno, che agiscono, che scrivono, mettono in rete, fanno leggere, discutono, correggono se occorre, puntualizzano magari ma dentro di sé riflettono.

{commenti chiusi}

Libere di essere donne.

In un altro blog si è accidentalmente ripresa la discussione su questo mio post.
Marassi, che per motivi tecnici non riesce a postare commenti sul mio blog [oramai ci sono affezionata a blogspot, ma devo valutarne l’effettiva funzionalità] mi ha risposto così:
In linea di principio potrei anche condividere gran parte delle considerazioni fatte da Assu ma semplicemente perché fin troppo ovvie e scontate.
Quanto raccontato, con tanto di considerazioni sulla doppiezza moralista di chi poi è contemporaneamente censore e cliente delle prostitute, fa parte a pieno titolo di quel senso comune che a suo tempo Boudelaire amava definire "betìse" e che oggi intasa quotidianamente tutti i canali televisivi di intrattenimento pomeridiano.
In quanto alla generica affermazione sui maschi che tu
[si riferisce a Laura Costantini, n.d.r.] riprendi nell'ultimo commento, fa il paio con le altrettanto generiche affermazioni che certi maschi fanno abitualmente sulle femmine.Non nego che statisticamente i maschi tendano a conservare tutti i benefici vetero-sciovinisti della cultura dominante.
Ma a parte il fatto che, in un maschio, un atteggiamento emancipato non corrispondente a una reale intima percezione si riconosce lontano un miglio. Va anche detto che assolutizzare una valutazione del genere come fa Assu, raccogliendo peraltro anche il tuo consenso
[si riferisce a Laura Costantini, n.d.r.], può essere o l'indizio di una scarsa propensione alla logica statistica oppure il retaggio di cattive frequentazioni in campo maschile.
Nel secondo caso mi dispiacerebbe molto per voi, ma attribuirei la colpa alla sfortuna più che alla genetica.
Ti rispondo qui.

Finché l’ovvio si scontrerà con l’ignoranza, sarà necessario parlarne. Ignoranza che, spesso, non è degli uomini ma delle donne. Fino a quando queste non avranno chiara l’opportunità di costruire e resteranno legate a schemi mentali vecchi quanto il mondo e si vedranno come “parte completante di un uomo”, non ci sarà nuova storia. Ma è anche degli uomini, ancorati a una visione di superiorità che sembra scritta nel DNA (ma così non è).
Personalmente mi preoccuperei più del tessuto sociale-lavorativo che delle donne nude in televisione che tu vai a guardare, e io, invece, ignoro ché sono ben altri i miei obiettivi. La dignità sta nella testa e non nelle mutande. Tu non l’hai scritto – è vero – ma come posso interpretare questo tuo post? E, comunque, una riflessione parallela s'impone: dove è scritto che sia vietato a una donna mostrare il proprio corpo? In quale cultura se non in quella puramente maschilista (che non è solo degli uomini)? La donna non è cosa vostra, da ammantare ed esibire a piacimento, da coccolare e sgridare, da lodare per virtù che voi le avete attribuito e ricondurre sulla retta via. Con quale diritto si sancisce che non sia “buon costume”? Con quello canonico che prima fa della donna la bestia dell’uomo e poi l’innalza a vergine eterna? Con quello laico (se di laicità potremo mai parlare senza ipocrisia nel nostro Paese) che riconosce diritti mantenendo il potere nelle mani degli uomini? Con quello naturalistico che sancisce una femminilità cucita addosso alle donne e dalla quale queste non riescono a distaccarsi (per stupidità, molto spesso)? Con quale diritto?
Dov’è esattamente l’errore secondo te? Io ce l’ho un’idea, ma vorrei il tuo punto di vista ché mi pari così determinato a confondere la logica statistica con la banalità del luogo comune del “non siamo tutti uguali” che si cela, neppure troppo velatamente, in quell’invito a considerare il parco maschi conosciuto. Personalmente lo leggo come una difesa: ehi, donnicciole che vaneggiate, io non sono così! E come sei tu? Come sei tu che giudichi e ti scandalizzi di fronte a quello zapping che evidentemente non ti lascia indifferente. Come sei tu? Non stai forse attribuendo alle donne la “perdita di valori”? Quali valori, poi!
Quindi, gentilissimo xy, scendi dal piedistallo perché a differenza di te a me non mi scandalizza un corpo nudo, né anelo a interpretare il ruolo di moralizzatore nella prossima edizione de “Le Iene”. Parli di logica [condivido l’abbozzo di tentativo razionalizzante] ma poi cadi nel già sentito che puzza di stantio. E se ritieni ch’io debba ammantarmi per essere donna, ti rispondo che non me ne frega essere donna come tu vuoi.
A me interessa essere persona capace di pensare, produttiva, sufficiente a me stessa, in grado di dare da vivere alla mia prole che non sarei disposta a sacrificare sull'altare se chiamata da un qualunque dio, ché non c'ho da dimostrare di poterne fare a meno. Quello è già diritto conquistato. Non ho bisogno di un dio.
A me non me ne frega nulla della femminilità come tu la intendi, io sono avanti già di qualche miglio [non è tanto, ma è qualche centimetro conquistato con la fatica del mio lavoro e del mio pensare e ne vado fiera]. Non ho tempo per la tua - probabilmente inconsapevole - guerra alle donne. È cosa tua, non mi appartiene più. Io sono diretta verso il cambiamento. È quella la mia meta. Le donne lo capiranno, e quando l’avranno capito la smetteranno di farsi costruire dagli uomini le quote rosa per concedere loro un’altra occasione di essere trombate. Lo capiranno e la smetteranno di limitarsi a mostrarsi e di cercare il compagno a cui essere devote e, piuttosto, cercheranno un compagno con cui condividere, alla pari, sconfitte, onori e glorie. Quando lo capiranno, la smetteranno di farsi assorbire da un sistema maschile e saranno finalmente libere di essere donne.

lunedì 30 luglio 2007

Quasintervista a Eleonora Buratti.


Lucia è stata una delle prime lettrici del mio Blog, quando con qualche dubbio e incertezza decisi di aprire un cassetto multicontenitore, Il cassetto delle idee libere. Le credenziali erano buone, non tanto perché condividevamo una conoscenza, quanto per il fatto di aver visto in Alberto quel qualcosa di positivo che sta sotto la scorza superficiale che lui pavoneggia in giro.

[Abo, questa te la dovevo dopo tutte le volte che ti ho trattato malissimo.]

Rimasi sorpresa nello scoprire che Lucia è Eleonora Buratti – o viceversa – perché Lucia non è un nick, è un nome [peraltro quello di mia madre, il che me lo rende particolarmente realistico] e una faccia.
Il Blog di Lucia è un e-book che romanza la quotidianità, con titoli che rievocano canzoni o espressioni che rientrano nel parlare giornaliero. Una nota di poesia che trasforma un temporale in libertà di bagnarsi sotto la pioggia, una passeggiata fra glicini e panni stesi in un giallo dai sapori antichi, l’assenza di un fonico in un momento di ribellione alla tecnologia… e il libro di Eleonora Buratti somiglia molto a quel Blog, oltre a condividerne il titolo: Il terzo desiderio.
Anche nel libro si assapora il gusto semplice del dialogo quotidiano fra due amici, per poi passare al giallo di un misterioso dipinto rubato, quindi indagare fra una Bologna che non c’è più e una Bologna che c’è, e inerpicarsi nella sensualità inaspettata dell’anziana signora Bianca.

Quasintervista a Eleonora Buratti.

Il terzo desiderio è un “libro sui buoni sentimenti”, in cui anche le tragedie vengono raccontate con la leggerezza della visione positiva. Questo arriva perfino a disorientare in un sistema che ci vuole bad boys and bad girls.
Ho sempre pensato che le “bad girls” o i “bad boys” più che “esserci” ci “facciano”. Mi spiego: non ho mai creduto alla facciata cattiva che sempre più di frequente viene mostrata. La ritengo poco autentica. L’era dei “maledetti” è finita. Ora rimane un atteggiamento, quasi una moda oserei dire. È bello giocare con il fango e rimescolare la melma delle miserie quando a mezzogiorno mangi la lasagna, viaggi in auto, indossi abiti firmati e a fine giornata ti aspetta un bagno caldo e profumato.

Dal Blog è sempre emersa una Lucia “buona”, fedele a quella suddivisione, a prima vista infantile, che nel libro spesso compare fra il buono e il cattivo.
Trovo squallidi i tentativi di costruire personaggi che cercano di attirare l’attenzione mostrando il peggio di sé e degli altri. La rappresentazione del mondo attraverso l’arte ha sempre tenuto conto di certi equilibri: il buono e il cattivo; il bene e il male; la luce e il buio. Anche nella macrobiotica, l’universo degli alimenti e delle cose della natura si suddivide in yin e jang. Un costante equilibrio e squilibrio di due forze che contrastandosi creano armonia. Esiste in musica, esiste in poesia. Lucia forse è “buona”. Non saprei. Lucia non si è creata. Lucia è.

Lo scrittore: il personaggio senza nome, con tanti nomi; senza storia, con tante storie. Le storie che osserva, attraverso lo spioncino della vita, diventano prima ancora che parole del libro che scriverà, un gioco con la vita. Quanto c’è di Lucia in questo scrittore?
Di Lucia nello scrittore c’è veramente poco. Hanno in comune solo il terzo desiderio, in ogni senso. Forse lo scrittore è ciò che Lucia non è mai stata. Pensa che io amo la tecnologia e sono stata una delle prime bolognesi a navigare su Internet quando all’università si facevano i primi esperimenti di connessione! A carte gioco bene però, come lui. E forse questo abbiamo in comune: una piccola cicatrice sotto il mento [e chi non ce l’ha? n.d.r., ma non solo].

Personalmente mi sono affezionata al personaggio più per effetto della voce narrante che per ciò che lui manifesta di sé.

Non mi stupisco. È facile amare qualcosa che ci viene raccontato. La narrazione conferisce quel valore aggiunto che azioni dirette e parole non hanno. Lo scrittore è un inconcludente, un insicuro. Forse non sarebbe possibile amarlo se non attraverso quelle parole che lo ritraggono nelle sue pose migliori.

I personaggi di un libro sono un po’ come i personaggi dei sogni freudiani: tutti riassumono un aspetto del sognatore. È per questo che, a parte Mascia, tutti gli altri personaggi conservano il loro aspetto umano? Come se a tutti fosse concessa la possibilità di essere protagonisti positivi [l’altra faccia della medaglia] in un’altra storia che la voce narrante non conosce o non ha il tempo di raccontare.
Credo di sì. I personaggi sarebbero stati protagonisti in un’altra storia, se avessi il tempo di raccontarla. E chissà che un giorno…

È chiaro leggendo Il terzo desiderio (sia la versione cartacea che quella on line) la tua passione per l’arte e, nel libro, si nota il piacere della ricerca storica, dello studio.

Gli uomini mi deludono, le loro opere no. Forse è per questo che amo l’arte. Nell’espressione artistica trovo vera bellezza, immortalità. Dalla storia, invece, rimango affascinata. Sento forte la voce del passato. Mi conforta. Il viaggio nel tempo mi gratifica quanto quello nello spazio.

La varietà delle situazioni raccontate potrebbe far pensare alla smania da “primo libro”, a quella voglia di dare voce a tutte le parole restate, per troppo tempo, rinchiuse in taccuini o custodite su fogli di fortuna che trasformano in preziosa pergamena anche il tovagliolino del bar.
Non saprei che dire. Questo romanzo è nato di getto. Annotazioni su taccuini e pergamene di fortuna non ce ne sono. Quelle appartengono allo scrittore. Io sono particolarmente distratta. Annoto nella memoria e spesso perdo parole lungo la strada, emozioni che avrei voluto fissare. Da qualche tempo, però, ho cominciato a organizzare il lavoro di raccolta materiale. Lo faccio più per senso del dovere che per altro.

Infine, una domanda interessata: cosa ne pensi di “Randagi”?
Randagi è una bella iniziativa. Spero di avere il tempo per partecipare. Per ora vado a leggermi i primi racconti che ho visto hai già pubblicato.

Il terzo desiderio, Eleonora Buratti: per informazioni

domenica 22 luglio 2007

XX & XY: lettura consigliata a un pubblico adulto (preferibilmente intelligente).

[Forse sì, forse ho generalizzato, ma vi domando di scrutare a fondo e di osservare e indagare, osservare e indagare, osservare e indagare. Una generalizzazione che vuole muovere una riflessione io la concedo a me stessa senza chiamarla incoerenza, e voi?]

Le dieci e mezza di sera. In estate è ancora presto per tornare a casa, anche se hai quindici anni. Soprattutto se abiti in una città di mare. Sulla riviera Nord, quella che da Pescara porta a Montesilvano, dall’Orsa Maggiore in poi, ché prima ci stanno solo famigliole che leccano gelati e inseguono bambini su minuscole bici colorate, le vedi. Hanno la pelle abbronzata, indossano minigonne e magliettine aderenti. Sono belle, fresche, luccicanti sopra e sotto il make up. In vetrina, ma non sono puttane. Le puttane stanno dall’altro lato della strada. Hanno la stessa età, sono vestite allo stesso modo, ma stanno dall’altra parte della strada. Sul lungomare, scivoloso per la sabbia portata dai bagnanti, loro sculettano spensierate. Non sono puttane: sono adolescenti. Giocano con la malizia che hanno appena imparato e stanno assaporando il loro essere femmine. Come cuccioli di felino che celano nel gioco il loro futuro di predatori, sperimentano la sensualità. Con la stessa naturalezza dei cuccioli di felino, lottano istintivamente. Quindici anni e sulle spalle il peso del nuovo perbenismo che le etichetta, senza ascoltarle, come vuote veline denudate di ogni moralità e intelligenza. Poco importa che, a scuola, siano le più brave, le più attente, le più coinvolte, le più attive, le più propositive. Sono solo piccole femmine che suscitano desideri e istinti irrefrenabili. Irrefrenabili per chi? Forse vale la pena domandarselo. Per il nuovo maschio? No. No perché non c’è un nuovo maschio. Questo è il problema: le donne cambiano, tentano di cambiare, ma i maschi restano quelli di sempre, anche quando apparecchiano la tavola e vanno a prendere i figli a scuola; lo fanno per sentirsi e sentirsi definiti evoluti e moderni, non perché sentano di far parte di uno stesso sistema.
È solidarietà non e coscienza.
Quando lo dico e quando lo scrivo sono, prima e più dei maschi, le femmine a ribellarsi. Non sono tutti uguali, non il mio uomo! E invece sì, care persone che avete il mio stesso intreccio di cromosomi. Sono esattamente come gli altri. Un po’ più furbi, ma come gli altri. E non pensiate di averne educato almeno uno. Lui, il vostro lui, si è semplicemente adattato. E stiate certe che, quando incrociando le adolescenti-veline, esclamerà: “Che fine ha fatto il femminismo?”, intenderà semplicemente sottintendere che, lui, quelle adolescenti se le farebbe eccome, ma non è colpa sua ché è maschio e quindi gli tira, è colpa loro e del loro essere svestite e provocanti. Ma com’è, care persone con una y in più e una x in meno, non lo sapete forse com’è fatta una femmina? Com’è che a vederla nuda vi bolle il sangue e vi si rizza? Culi e tette ce n’è in abbondanza, in ogni dove, eppure non smettete di cercarli: sulle riviste patinate lucide, in televisione, sul web, sui seipertre e sul lungomare. È da quando esistiamo che siamo fatti così: voi il grillo e noi la passera. Eppure!
Care donne che vi ribellate all’ovvio, guardate attentamente e capirete che non lo avete affatto educato il vostro lui. Al contrario, lui ha educato voi a considerarvi diversa, al di sopra delle puttanelle. Vi ha assorbite nel suo credo e rese cieche di fronte all’evidenza. Vi ha regalato il sogno dell’uguaglianza e voi lo ripagate a caro prezzo perché ci rimettete in dignità.
Com’è che un architetto è un architetto se i suoi cromosomi sono xy, ed è un “architetto donna” se i suoi cromosomi sono xx? Com’è che uno scrittore è uno scrittore e una scrittrice deve spiegare perché scrive? Com’è che un uomo è pragmatico e una donna ha il pragmatismo di un uomo? Com’è che l’uomo è virile e la donna è puttana? Com’è che (nella maggioranza dei casi) a morire da stronzi gli uomini ci vanno in guerra e per spacconaggine e le donne per violenza subita dagli uomini? Sono le
statistiche a parlare. Sono i fatti. E i fatti, ancora oggi, inducono a dover dare spiegazioni che dovrebbero stare ficcate nella testa di tutti (senza distinzione di x e di y) sin dai primi secondi di vita. Com’è che ridete compiaciuti della perspicace intuizione di Oliviero Toscani (mi pare) per cui i tacchi a spillo sono, nell’immaginario collettivo, inversamente proporzionali all’intelligenza?
E a voi care donne domando: come potete sopportare di dover rinunciare alla vostra reale femminilità, che è dote naturale (giacché tanto si è parlato ultimamente di natura, o vale solo per gli omosessuali?) e significa essere libere di essere donne, a favore di quella che vi hanno cucito addosso e convinto che sia "la femminilità"?
[NevroticaMente vostra]

sabato 21 luglio 2007

Clicca, leggi, stampa, fai leggere.

La rete non è, la rete si fa. L’ho già scritto, l’ho anche sottolineato in una specie di intervista che mi hanno fatto. [Di questo, però, vi parlerò un’altra volta.] E si fa anche attraverso idee che mirano ad allargare i confini della conoscenza di quanto c’è di buono nel web. Leggendo non solo scrivendo.

RANDAGI è un e-book che raccoglie/raccoglierà racconti sparsi di bloggers che vorranno aderire all’iniziativa pubblicando uno scritto al quale sono particolarmente affezionati. Racconti randagi che vagano nella rete senza una patinatura, rimasti imbrigliati fra le maglie di una comunicazione troppo veloce che, sovente, non si sofferma neppure quell’attimo indispensabile a cogliere l’essenza delle parole.

Cliccando sull’immagine potete scaricare la prima edizione di Randagi, con i primi tre racconti (tre alla volta):

- Tamarri, di Remo Bassini
- I profeti si scelgono fra i più disperati, di Babsi Jones
- I capelli dentro la testa, di Assunta Altieri


Ringrazio Remo e Babsi per aver accolto così favorevolmente la mia iniziativa e invito anche gli altri bloggers a partecipare. Unica condizione: deve trattarsi di un racconto al quale siete particolarmente legati e sono così invadente da voler sapere perché.

La selezione del racconto sarà fatta assieme, non da me arbitrariamente, sebbene sia convinta di poter esercitare una dittatura illuminata più democratica di certe democrazie variamente sbandierate. ;)


Buona lettura e buon fine settimana.

venerdì 20 luglio 2007

Indizi per un’idea: 1, 2, 3, 4.

Sabato vi presenterò un nuovo progetto.

Indizio n. 1, una fotografia:

photo by assu: ombre randagie

Indizio n. 2, una parola:

RANDAGI

Indizio n. 3, una convinzione:

vi sono pensieri che si spalmano nelle nostre intimità e restano isolati, quando invece, dentro di noi, è forte la spinta a condividerli.

Indizio n. 4, un concetto:

LA RETE

domenica 15 luglio 2007

Il problema sono io.

Ho riflettuto sulle frizioni che ci sono state negli ultimi giorni e, a conti fatti, devo riconoscere, che un po’ puntuti (espressione che usava spesso Enzo Baldoni quando voleva sottolineare l’incapacità ad accogliere apertamente le opinioni altrui) lo siamo stati tutti. E devo, altresì, riconoscere che ciò che si rischia di perdere è di gran lunga più prezioso di ciò che se ne può guadagnare in orgoglio.
L’uscita di Amato, che trovo, a dir poco, infelice perché un ministro non si può permettere di alimentare dissapori che dall’obbedisco di Garibaldi in poi hanno spaccato l’Italia, unita sì ma fondamentalmente rimasta divisa culturalmente ed economicamente, ha suscitato proprio quella diarrea da post “Nord e Sud l’un contro l’altro armati” che temevo e che ho cercato di evitare provando a suggerire altre tematiche che, pure, scaturivano da quell’affermazione. Ma Laura Costantini ha scritto una verità incontestabile: il ministro ha detto pubblicamente ciò che molti pensano e non hanno il coraggio di dire. E giacché anche lei lo pensa, ritengo un suo diritto averlo espresso pubblicamente. Il nocciolo della questione – e questa è stata la riflessione – non è, quindi, avere o non avere il diritto di esprimere la propria opinione, quanto la constatazione, piombatami addosso come una valanga, che lei la pensasse così. È stupido, lo riconosco, ma mi sono sentita tradita. Più volte io e Laura ci siamo scontrate. Ricordo la discussione sugli scrittori emergenti e quella su Roberto Saviano, per esempio. Tuttavia, mi è sempre sembrato di leggere fra le righe una certa intelligenza che le stava guadagnando un posto fra l’esigua quantità di persone che stimo. Non che questo posto debba, per forza, essere ambito, intendiamoci, ma io sono fatta così, ho bisogno di ritenere una persona degna di stima per stimarla. Quindi – e qui prosegue la riflessione – il problema non è lei. Il problema sono io. Estendendo il concetto: il problema è l’io di ciascuno di noi.
Un io, il mio, che odia profondamente le generalizzazioni, tanto che quando affronto tematiche scottanti come la camorra a Napoli, per esempio, parto sempre dal presupposto che non tutti i napoletani siano camorristi. Certo, è complesso – più complesso – vivere nell’ambito di un sistema all’interno del quale sei qualcuno se hai o puoi dare protezione, ma questo non fa di tutti i napoletani dei camorristi. Lo stesso vale per i siciliani (tutti omertosi), per i pugliesi (tutti sguaiatamente prepotenti), per i romani (tutti caciaroni e magnamagna), per i milanesi (tutti gasati), per i parmigiani (tutti snob)…
Il problema sono io. Io che m’indigno. Io che parto lancia in resta come la paladina della giustizia. La giustizia di chi? Se fossi un’ipocrita direi LA GIUSTIZIA (LEI, IN ASSOLUTO), ma cerco di non esserla ipocrita, e quindi ammetto: la giustizia, secondo me. Questo, temo, sia accaduto nella variegata manifestazione di opinioni: ognuno ha difeso a spada sguainata la propria visione di giustizia. Ognuno si è sentito libero, protetto da un quasi anonimato, di portare la sua testimonianza a quell’invito a dire apertamente, come il ministro, che è vero dunque, sono i siciliani ad aver portato in Italia (e magari nel mondo) la cultura che conduce all’inferiorità della donna, alla sua discriminazione, alla sua annientazione. Questo ha invitato a fare Laura. Lei però non si è mascherata dietro a un nick. Ha firmato. Ci ha messo faccia, nome e coraggio (non sono d’accordo su quest’ultimo, ma come tale è stato percepito e quindi ne prendo atto). E non si può negare a nessuno il diritto di esprimere la propria opinione, neppure quando stenta a porre limiti fra caso e genere. Non si può.
Il problema sono io che ritengo si sia persa un’occasione importante di discutere, assieme, le cause del pensiero ancora troppo diffuso (a Nord, al Centro e al Sud, fra maschi e femmine, fra classi e status sociali differenti) della visione della donna come “figa con un po’ di carne attorno”, dell’influenza troppo pressante delle religioni, soprattutto quelle monoteistiche. Il problema sono io che mi domando perché il ministro non abbia detto quella “verità” che, pur’essa, è spesso oggetto di discussione: è una tradizione islamico-cristiana che va corretta, giacché non è dei pakistani o dei siciliani il problema quanto del mondo intero, e soprattutto di quelle società nelle quali le religioni hanno acquisito valenza politica e i suoi rappresentanti giocano a scacchi coi politici nella determinazione del vivere civile.
Lo dico con convinzione: il problema sono io. Io che spero ogni giorno, ogni istante, che le cose possano cambiare e possano cambiare anche attraverso un’interazione intelligente nella rete. Io che ci provo a fornire spunti che vadano oltre lo stereotipo della chiacchiera facile e mi dico: chi se ne fotte dei commenti tout court? Chi se ne fotte dei bene, brava, bis? Chi se ne fotte dei numeri, puntiamo sulla qualità ché mica ci campo di Blog! Io che dico a mia figlia: i cambiamenti nascono dal singolo, da piccoli atteggiamenti che siamo in grado di mutare noi, senza doverli richiedere e pretendere.
Lo dico col cuore in mano, Laura: il problema non sei tu che hai il sacrosanto diritto di pensarla come i tanti che hai portato alla luce con le loro verità spalmate già qua e là su list e blog (ché quando c’è da menar duro su terroni e tifosi ce n’è parecchio di pubblico lindo e scelleratamente caustico nello sferzar condanne); il problema sono io. Però, vedi, in quell’esigua quantità di persone che stimo voglio rimanerci, perciò stento a rientrare nel tuo segmento di target.

sabato 14 luglio 2007

Navigo random, di link in link, e mi ritrovo qui.

(Rubrica periodica, ma non troppo, su chi sa fare la rete. E non a caso nasce il 14 luglio.)

Un grande Blog, più per i commenti che per i post dice lui – . Un grande Blog – dico io – per l’onestà intellettuale di Remo Bassini. I suoi post: talvolta racconti, talvolta opinioni, talvolta link di rimando a qualcosa di buono. Di buono. Mai rimasta delusa dopo aver cliccato su uno di quei link. Letto per me. Letto per noi. Offerto senza il timore di disperdere i propri lettori.

Tam tam tam…tale suonava l’eco di un certo post. E mi ritrovai fra le righe dure, profondamente sentite di una letteratura che mi è vicina nel pensiero e nella forma. Il taccuino pubblico di Babsi Jones svela incipit costanti di un sentire che scorre sotto la cute, che spinge a riflettere. Riflettere, non rimuginare.

venerdì 13 luglio 2007

Facendo di conto da Nord a Sud. (Titolo alternativo: Caccia al terrone. Oppure: Chi è veramente il terrone?)

pubblicato su MC


Amato sì, Amato no.
Come temevo tutto si è tradotto in un’annosa discussione su terroni e polentoni, quando invece c’era ben altro da indagare: la delinquenza intellettuale di chi pretende di parlare in nome di Dio, la presa di posizione nei confronti di un pensiero di superiorità/inferiorità genericamente diffuso che non sempre si traduce in violenza ma tende spesso a surfare fra convinzioni consolidate, l’incapacità dei politici di prendere posizioni ferree inquadrando il problema e dando (quantomeno bozze di) soluzioni.

Ma veniamo ai terroni.

Oggi ho fatto velocemente due conti. Ho vissuto:
- per il 52% a Parma
- per il 14% nel Gargano
- per il 12% a Milano
- per il 10% a La Spezia
- per il 12% in giro (c.a. 70% Nord-30%Sud)

Quindi complessivamente c.a. l’85% al Nord e il restante 15% al Sud.
Ma.
Ma sono nata in Puglia, nell’entroterra del Gargano, paese di mafia rurale.
Quindi.
Quindi sono al 100% terrona. In quanto tale: gradisco prendere calci in faccia e preferibilmente in pancia se sono incinta; al comando del masculo porto l’acqua a tavola; mio padre è un troglodita che picchia, o alla meno peggio, non rispetta mia madre.
Ma.
Ma così non è.
Poi.
Poi c’ho due aneddoti.

Il primo me lo ha raccontato Piero, il mio ex suocero (toscano toscano).
Un suo conoscente (ravennese ravennese) alla moglie (bolognese di adozione ravennese): ...prendi l’acqua, prendi il pane, servi il pollo, prendi un altro bicchiere…
Piero: M. ma lascia che stia un po’ tranquilla.
Il conoscente: Perché? È il suo lavoro!
Commento di Piero: Che terrone, M.!

Il secondo mi è capitato direttamente.
Un'amica (parmigiana parmigiana) viene a trovarmi a Pescara (dove attualmente vivo) e andiamo a mangiare in un ristorante suggeritomi per il pesce. Arriva il cameriere e io gli chiedo di esporci i due menu, a base di pesce per la mia amica, rigorosamente non a base di pesce per me ché sono allergica.
Il cameriere ammiccante: Sei allergica al pesce, eh!
Io per nulla compiacente: Sì, mi dica le alternative, per cortesia.
Il cameriere: (…) sorvolo sulla battuta.
La mia amica: Che terroni questi pescaresi!
Qualche giorno dopo, racconto l’aneddoto ad un paio di conoscenti (pescaresi pescaresi).
Una delle due: Sicuramente non era pescarese, sarà stato uno di quei terroni pugliesi.
Io: Sai vero che io sono pugliese?
L’altra: Nooo, tu sei parmigiana.
Quella di prima: Potrebbe anche essere calabrese, qui ce ne sono parecchi!
L’altra: Per me è un albanese.

Sintesi: per qualcuno siamo sempre dei terroni.

Tutto questo per dire: ma perché non impariamo, da individui intelligenti quali siamo, a parlare di persone? Non milanesi e siciliani, non terroni e polentoni, non maschi e femmine e (azzardo) non adulti e adolescenti, ma persone. Persone, porcaccialamiseria!

giovedì 12 luglio 2007

L'Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito; la Sicilia è la civiltà di tutto. *

Questo è un post a commenti chiusi perché del suo contenuto si sta discutendo in vari altri blog (qui e qui, per esempio) e quello che segue non è il Verbo, ma un pensiero che difficilmente può mutare.
Qualche giorno fa mi hanno chiesto quale fosse, a mio avviso, la peggiore bestemmia. Ho risposto che la pronuncia chiunque asserisca di parlare in nome di Dio. Costui è un delinquente che, senza alcuna responsabilità personale, può arrogarsi qualsiasi diritto, anche quello di vita e di morte. Quindi condivido Amato quando afferma che non c’è un Dio dietro il quale nascondersi. Ciò nonostante, non può un ministro per il timore di offendere un popolo “altro”, offendere il proprio. Avrebbe dovuto dire che è degli uomini nel senso di maschi questa tara, ché questa è la verità. Avrebbe dovuto dire: smettiamola noi uomini di usare la forza, smettiamola di stuprare nel corpo e nell’anima. Avrebbe dovuto dire: siamo persone che ammazzano altre persone e non uomini che ammazzano donne. E avrebbe dovuto dire che le religioni non aiutano in questa normalizzazione e che è ora di smetterla di ammazzare in nome di Dio perché questa è vigliaccheria non devozione.

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*Goethe, 1787


mercoledì 11 luglio 2007

Che uomo che è questa ragazza!

Loredana Lipperini annuncia il suo nuovo e, da quanto leggo, interessante libro: Ancora dalla parte delle bambine. Faccio una doverosa premessa: ciò che segue non è in alcun modo legato al libro che non ho ancora letto giacché uscirà il 31 ottobre, ma pensieri scaturiti dalla presentazione che trovate qui e che, in parte riporto.

Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. (…) Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni: diventare ballerine, estetiste, infermiere, madri. Questo è il mondo delle nuove bambine.

Insomma, nulla sarebbe cambiato da quando alla povera Gertrude (la monaca di Monza) venivano dati santini e similari con cui trastullarsi.
Il ballo inteso come grazia e sinuosità dei movimenti, l’estetica, la tendenza a curare, l’essere madre sono parte integrante dell’essere donna a cui non ho nessuna voglia di rinunciare. Non credo che il raggiungimento della pari dignità – per quanto mi riguarda più importante dell’uguaglianza cui spesso si anela – debba comportare la perdita di ciò che è caratteristica propria della femminilità. Che ciò non debba diventare né fine né mezzo è doverosamente condivisibile, ma è altrettanto doveroso riconoscere peculiarità femminili che sono parte del nostro modo di pensare e perfino di essere. Il rischio, altrimenti, è quello di sentirci gratificate dall’essere considerate “donne con le palle” come già più volte e da più parti contestato. Una volta, un caro amico, di fronte a una mia decisiva presa di posizione si è espresso così: Che uomo che è questa ragazza! (Massimo De Nardo, che legge questo blog, lo ricorderà sicuramente). Questa non è pari dignità, care donne, perché, in tutta franchezza, di andare in giro a dare pizzicotti sul sedere non ho nessuna voglia (e per cortesia evitiamo commenti del tipo: non tutti gli uomini lo fanno e blablabla ché lo so). Ciò che desidero, semmai, è avere il giusto riconoscimento per ciò che faccio anche se lo faccio con il rossetto. Né più né meno. Perciò sono sempre stata profondamente contraria alle quote rosa che trovo offensive perché non si può pensare – non più porcamiseria! – di esserci per percentuale di esistenza.

Negli anni settanta, Elena Gianini Belotti raccontò come l’educazione sociale e culturale all’inferiorità femminile si compisse nel giro di pochi anni, dalla nascita all’ingresso nella vita scolastica. Le cose non sono cambiate, anche se le apparenze sembrano andare nella direzione contraria. (…)Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. E bisogna cominciare con l’interrogarsi sulle bambine: perché è ancora una volta negli anni dell’infanzia che le donne vengono indotte a consegnarsi a una docilità oggi travestita da rampantismo, a una certezza di subordine che persiste, e trova forme nuove persino in territori dove l’identità è fluida, e fluidissimi dovrebbero essere i generi, come il web.


È questo – ancora e inaccettabilmente – il punto. Forse un po’ di cose sono realmente cambiate, solo che gli adulti restano troppo spesso imbrigliati nella rete dell’onnipotente sistema valutativo che, sovente, dimentica che i contenitori restano vuoti quando nessuno li riempie. E quelle donne che volevano tutto si sono scontrate con una realtà complessa, perché non è facile – ammettiamolo – essere donne in carriera, buone madri, mogli, infermiere… Ci sarà pure un motivo se l’uomo, da sempre, si è ritagliato un ruolo e ci si è accasato (e anche qui, so bene che vi sono le ripartizioni dei compiti, che anche loro vanno a prendere i figli a scuola e tutte quelle cose che, però, fanno per sentirsi e sentirsi definiti evoluti/moderni non perché lo ritengano parte integrante della loro esistenza). Quelle donne, molto semplicemente, hanno – spesso – parcheggiato i figli davanti al mondo scintillante della televisione, della musica commerciale, della letteratura alla Melissa P. Quelle donne (che siamo noi, non ce lo dimentichiamo perché il rischio è quello di salire sul pulpito dell’opinionismo scevro di ogni responsabilità) hanno impegnato il loro tempo a costruire un presente che le vedesse uguali agli uomini. E qui ritorno al concetto di dignità: non è l’uguaglianza fine a se stessa che ci rende libere, ma la pari dignità. Essere donne non significa essere diverse, è tempo che ce lo mettiamo in testa. Essere donne significa essere donne. Non dobbiamo giustificare ciò che siamo per nascita. Se vi è un diritto da difendere è quello di poter essere libere di essere donne, senza per questo dover giustificare il desiderio o meno di maternità, lo scrivere, l’essere manager, l’avere successo, il volerci sentire belle, la lacrima facile, il web, la scelta di essere madre e moglie, eccetera.
Troppe volte mi sono sentita dire: tu hai il pragmatismo di un uomo. Non lo sopporto! Non è un complimento. Tu sei pragmatica, è sufficiente.


venerdì 6 luglio 2007

Di anteprime, emozioni, feste e camorra.

Piedigrotta è 'na femmina guappa.
Vi sono anteprime che non mi interessano. Per esempio, non ho mai provato emozioni particolari all’anteprima di un film. Mi è capitato, ma in fondo non ha cambiato nulla nella mia percezione delle cose e, tutto sommato, a me piace quel tempo d’attesa che mi fa gustare un film, un libro, qualsiasi cosa prima di averlo fra le mani e considerarlo cosa mia. Mi piace concedermi il tempo del desiderio. Ma il 4 luglio, mi è capitato di vivere l’anteprima di un’emozione che ha creato realmente dei movimenti tellurici nell’anima. È successo al Parco Vergiliano, a Piedigrotta – da non confondere con il Parco Virgiliano a Posillipo. Il Parco Vergiliano custodisce le tombe di Virgilio e di Leopardi. Un monumento romano augusteo la prima, di tono classicista la seconda. Sono inserite all’interno di un parco che si inerpica sulla roccia, polmone verde che separa e unisce – con la storica grotta che è in fase di recupero – Mergellina e Fuorigrotta, e dona una nota antica che all’inizio stenta a trovare un punto fermo in chi è abituato alla freneticità. I lavori sono in atto e il cantiere aperto, pertanto inaccessibile, ma la visita in anteprima, per pochi, ha consentito di percorrere una buona fetta della grotta. Qui abbiamo trovato di tutto – ci ha spiegato l’architetto – spaccio e camorra, ma abbiamo voluto a tutti i costi riappropriarci di un pezzo della città che appartiene a tutti i napoletani, a tutti gli italiani, a tutto il mondo… Il microevento è solo una delle attività trasversali che a Napoli si potranno gustare fino al 12 settembre, attendendo la ritrovata festa napoletana: la Piedigrotta che ritorna dopo venticinque anni con una veste che sa guardare alla tradizione senza scivolare in toni nostalgici, affermando e rappresentando la Napoli di oggi che non è solo quella di cui si parla in questo pur interessante articolo di Roberto Saviano su Repubblica on line.

Nota su Roberto Saviano
Personalmente apprezzo Saviano e non condivido quanti muovono accuse di “eccesso di marketing”. Credo che Roberto sia, tutto sommato, la risposta a quanto si è ampiamente discusso nei giorni addietro in merito alla scrittura, al giornalismo, all’editoria (qui, qui, qui e qui). Ha scritto, personalmente trovo che l’abbia fatto bene con un linguaggio che ben si fa comprendere e che non pretende, se non in brevi tratti, di romanzare la cronaca, una denuncia, raccogliendo fonti e mettendo assieme pezzi di un puzzle complesso, come i giornalisti non sono più abituati a fare. Ha scritto un libro che dà qualcosa alla gente, dà fatti, dà l’impressione che ci sia ancora qualcuno che abbia voglia di indagare la verità. Perché è di verità che c’è bisogno. C’è bisogno di dare un nome e cognome a ciò che avviene in Italia.

Nascere a Napoli è una condanna
Napoli non è solo camorra. Ma il sistema camorristico – è reale, è tangibile – scorre nelle vene di questa città meravigliosa. È tempo che i napoletani si riapproprino della propria dignità. Fino a quando questo non succederà, nascere a Napoli, resterà una condanna.