GLI ALTRI CASSETTI

lunedì 30 aprile 2007

I 5 libri di Lucia.

Di seguito trovate i cinque libri di Lucia.
Trovo molto bello ospitare una cara amica di Blog. E vi invito alla lettura dell'ultimo libro citato, che io stessa sto leggendo e di cui mi riservo di parlare meglio, quando l'avrò finito. Suppongo al ritorno dal mio imminenente viaggio a Madrid.

Copioeincollo.

Il primo fu un regalo di un amico. E’ un romanzo di Jay McInerney, Le mille luci di New York :

"Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest'ora del mattino. e invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una ragazza rapata a zero. Il locale è lo Heartbreak oppure il Lizard Lounge. Tutto diventerebbe più chiaro se potessi fare un salto in bagno a sniffare una bella riga di Tiramisù Boliviano. Una vocina dentro di te insiste che questa epidemica mancanza di chiarezza è già il risultato di un eccesso di biancolina. La notte ha ormai girato quell’impercettibile chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino. Tu sai benissimo che il momento è arrivato e passato, ma non sei ancora disposto ad ammettere di aver superato il limite…”


Il secondo lo trovai nella biblioteca della scuola. Fu il mio primo amore fatto di pagine e parole. E’ di Pasquale Festa Campanile, La ragazza di Trieste:

“Nessuno l’aveva vista entrare in acqua. L’uomo che disegnava sul terrazzino di legno, davanti al bar, guardava ogni tanto pigramente verso la spiaggia, ma aveva notato solamente il maglione rosso e la giacca a vento azzurra dei due ragazzi stesi qualche metro più sotto. Il suo occhio era attratto dai colori e dalle linee: dall’intensità di quel rosso e quell’azzurro nel grigio uniforme della sabbia; e dalla riga delle nuvole, grigie anch’esse sul diverso grigio dell’acqua, tirate all’orizzonte su una striscia sottile di cielo giallastro. Il ragazzo dal maglione rosso si alzò in piedi d’improvviso e agitò il braccio verso il largo, gridando. Un bagnino che lavorava dietro le capanne chiamò un compagno. Insieme, di corsa, i due uomini rimisero per il suo verso un pattino capovolto e lo spinsero in mare.”

Il terzo è una pietra miliare della letteratura del secolo scorso. Lo trovai fra i libri di mia madre. E’ di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini:

“La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l’antico e l’orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell’Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d’opera fino a pochi anni fa. In qualsiasi altro cimitero, l’attiguo Camposanto Comunale compreso, un sepolcro di tali pretese non avrebbe affatto stupito, ed anzi, confuso nella massa, sarebbe forse passato inosservato. Ma nel nostro era l’unico. E così, sebbene sorgesse assai lontano dal cancello d’ingresso, in fondo a un campo abbandonato dove da oltre mezzo secolo non veniva sepolto più nessuno, faceva spicco, saltava subito agli occhi.”


Il quarto mi ha fatto versare lacrime fin dalle prime pagine. Lei l’adoro. Lei è superba. Inimitabile. Lei è Margherite Duras, e il libro L’amante:

“Un giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: “La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane.”
Penso spesso a un’immagine che solo io vedo ancora e di cui non ho mai parlato. E’ sempre lì, fasciata di silenzio, e mi meraviglia. La prediligo fra tutte, in lei mi riconosco, m’incanto.
Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in maniera imprevista. Sono invecchiata a diciott’anni. Non so se succeda a tutti. Non l’ho mai chiesto.”


L’ultimo è il primo. Il mio primo romanzo. La pubblicazione di un lungo lavoro di ricerca fuori e dentro di me. Il frutto dei miei pomeriggi ricurvi sulla tastiera di un computer. Eleonora Buratti, Il terzo desiderio:

“L’estate era finita e nel giardino trasandato della vecchia signora Cantelli i colori brulli dell’autunno si erano lentamente sostituiti al verde della vegetazione, cresciuta rigogliosa e indisturbata per il caldo straordinario. Il tiglio aveva smesso di fiorire e il freddo annunciava l’arrivo della brutta stagione. La sera calava ogni giorno più in fretta e le nebbie delle pianure circostanti formavano un anello intorno alla città che spesso si spingeva anche fino a quella zona di periferia. La donna, seduta davanti al suo cavalletto, stava abbozzando il soggetto di un nuovo dipinto quando decise che era giunto il momento.”

venerdì 27 aprile 2007

Non siamo a Passaparola

Quante definizioni sono state utilizzate per la Guerra?

Guerra civile.

Guerra mondiale.

Guerra intestina.

Guerra fredda.

Guerra di quartiere.

Guerra sociale.

Guerra proletaria.

Guerra politica.

Guerra d’onore.

Guerra nucleare.

Guerra strategica.

Guerra stellare.

Guerra d’emozioni.

Guerra d’opinioni.

Guerra d'interessi.

Guerra d’intelletti.


E nell’era della massima evoluzione, la nostra:

Guerra di Pace

Gino Strada ha chiuso gli ospedali di Emergency in Afganistan.
Rahmatullah Hanefi è ancora agli arresti nella totale indifferenza del Governo italiano che, seguendo una logica tutta nostrana, se ne è servito per ottenere la liberazione di Mastrogiacomo necessaria a rinsaldare i rapporti con un elettorato deluso e oramai sfaldato.
Non ce la faccio a dire “passo”. Provo un senso di impotenza che mi frastorna e uccide qualcosa dentro di me.

mercoledì 25 aprile 2007

Il bello di avere il mare sotto casa.

Ilaria e Assu: pomeriggio sugli scogli.







I 5 libri.

Sarà mancanza di sonno, sarà che la pioggia che sento sbattere contro i vetri concilia la scrittura (di lavoro e non) sono giunta a tarda ora e così ne ho approfittato per “fare i compiti” assegnati da Diego.

È difficile scegliere cinque libri perché un libro suscita in ognuno emozioni differenti e quindi sarò letta attraverso esse e non attraverso le emozioni che hanno suscitato in me. Ed è difficile perché vanno pescati in uno spazio di tempo ampio. Perciò ho deciso di affidarmi al naso, come spiego di seguito.

***

Lezioni americane
Italo Calvino
Cap. I, Leggerezza. Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire.
Oddio, cheddire di Calvino che non sia stato già detto? E, a scuola per giunta, dove se hai la fortuna di trovare un insegnante decente, ti viene proposto quantomeno Il cavaliere inesistente. E va bene, perché con quel libro, se hai un minimo di fiuto, ti innamori dello scrittore e allora vai alla ricerca di qualcosa di più e, se sei fortunato, arrivi alle Lezioni americane, ti gongoli un po’ nell’orgoglio di patria (sebbene non abbia mai potuto tenere le lezioni) e poi ti addentri nella lettura e scopri che quel Calvino che aveva scritto - non ricordo dove, e vado a memoria quindi chiedo venia per le imperfezioni, “È giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione. Ma la gravità della situazione richiede spirito analitico, senso della realtà, responsabilità per le conseguenze di ogni azione, di ogni parola e di ogni pensiero e quindi doti non estremiste per definizione”, innova continuamente se stesso, portandoti a un’innovazione continua. E lo fa attraverso la constatazione che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Indubbio maestro di stile e di tono.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché è il primo che mi è venuto in mente quando ho letto il post di Diego. Quindi ho dato spazio all’istinto, all’emozione, al naso. Di qui la decisione di scegliere anche gli altri libri col naso e non con il cervello, perché – lo dico spesso – il naso la sa molto più lunga del cervello, solo che ci piace sbandierare quest’ultimo. Peccato!
Io e il libro.
L’eterno dilemma fra scrittura universale e scrittura personale. È inevitabile, per me, ogni volta che riprendo questo libro riflettere su questa frase: Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.

***

Domani nella battaglia pensa a me.
Javier Marìas

Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome.
Javier Marìas è uno dei miei scrittori preferiti. C’è un suo modo di dire, ricorrente nelle interviste, che riassume il gusto della lettura: “Il romanzo illumina le nostre zone d’ombra”. Ti prende per mano e ti porta non solo nell’universo dei personaggi, anche nel suo e a un certo punto avverti una fusione fra la storia, le riflessioni dello scrittore e le tue. Il suo stile è quello che più rispecchia il mio modo di intendere la lettura: l’interazione fra scrittore e lettore. Ti offre spunti di pensiero. Ti dona le sue interpretazioni lasciando spazio alla tua fantasia.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché il libro ha scelto me. Ero su un treno e il mio casuale compagno di viaggio dimenticò la sua copia di Repubblica, ripiegata sull’intervista a Javier Marìas, di cui avevo già letto Un cuore così bianco che mi era piaciuto parecchio. Ho letto l'intervista e mi sono ripromessa di comprare il libro. Non l’ho comprato subito. Dopo qualche settimana, un mese forse, in aereo, l’uomo seduto al mio fianco, vicino al finestrino, coi baffi e la cravatta buffa, leggeva sussurrando (non so se vi è mai capitato, è allucinante!) e reggeva con le grosse mani sudaticce Domani nella battaglia pensa a me.
Com’è? Gli chiesi, approfittando dell'ennesimo sbuffo annoiato.
Mah…sono solo all’inizio, ma non mi piace molto. Il baffo si storse in una smorfia di disgusto.
Ho letto “Un cuore così bianco” dello stesso autore, l’ho trovato particolarmente coinvolgente. La spinta a difendere Marìas è stata naturale.
Guardi, se vuole glielo regalo! Tanto è solo per passare un’ora e preferisco il mio giornale. Tirò fuori dalla borsa di cuoio una rivista di automobili e spinse verso di me il libro.
No, no. Ci mancherebbe altro. Il mio imbarazzo cresceva, pensai di essere stata villana nella mia arringa pro-Marìas.
Glielo regalo, le dico. Su non faccia tante storie. Il tono era quello di un padre che cerca di persuadere il figlio a studiare e aumentò il mio stato di soggezione.
Magari glielo pago… osai e il mio compagno di viaggio alzò la voce e mi disse che non li voleva i miei soldi, e che diamine! Guardi che non voglio mica portarla a letto, voglio solo regalarle un libro.
La situazione era talmente ridicola che feci l’unica cosa normale: una sonora risata, accettai il regalo e iniziai a leggere.
Io e il libro
Mi sono rivista in Victor, nel suo attraversare ogni attimo i cammini della vita; nel suo considerare l’amore una casualità che riconosci inevitabilmente; nel suo scrivere nel buio.
***
La colazione dei campioni.
Kurt Vannegut
Questo è il racconto dell’incontro di due uomini bianchi, solitari, macilenti e abbastanza anziani, su un pianeta che andava rapidamente morendo.
Uno dei due era uno scrittore di fantascienza di nome Kilgore Trout. A quel tempo non era nessuno e immaginava che la propria vita fosse finita. Si sbagliava: in seguito a quell’incontro, divenne uno degli esseri umani più amati e rispettati della storia.
Colui col quale s’incontrò era un rivenditore d’auto, un concessionario della Pontiac di nome Dwayne Hoover. Dwayne Hoover era sul punto d’impazzire.

A costo di dare una definizione banale, per me Vannegut è semplicemente geniale. Mi piace come scrive, i ritmi che usa, la sua eccezionale ironia. Io adoro l’ironia. Non la comicità che riesco a sopportare solo a piccole dosi, né la comicità vestita di nuovo come le bacche del biancospino. E per spiegare perché quest’uomo mi stuzzica riporto le sue parole: Quando scrissi questo libro favoloso, vent’anni fa, ero ancora scosso dall’impatto della televisione sul vecchio mestiere di raccontare storie con carta e inchiostro. Mi sembrò una buona idea, per salvare il salvabile, cioè per trattenere quel pubblico che ancora restava a noi, poveri disgraziati dalle mani macchiate d’inchiostro, quella di rendere i nostri scritti più “visivi”. Così creai quest’opera che è una delizia sia per gli occhi che per l’intelletto. C’è così, in questo libro, qualcosa anche per gli analfabeti, che si dice siano negli Stati Uniti qualcosa come quaranta milioni. Quand’essi guarderanno il mio disegno di un paio di mutande, ad esempio, non avranno problemi nel riconoscerle come mutande e nel pensare tra sé e sé “mutande”.
Cheddire di più? Vonnegut sa fare satira, senza sterili polemiche ma con quella sua ambiguità fra l’essere un writer e un copywriter
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché l’ho rubato. Te lo confesso, Roberta (so che leggi in silenzio questo Blog), l’ho preso dalla libreria del tuo bagno (lunga storia che racconterò in un altro momento). È stato il giorno in cui mi sono lavata le mani con il dentifricio. Cosa ne potevo sapere che quel flacone del tutto simile a un flacone per il detergente mani/viso fosse un dentifricio liquido? Perché poi ti sei fatta fregare dalla pubblicità del due in uno? Prima ti lavi i denti e poi usi il collutorio, se vuoi. Due in uno è una cavolata. Ritorniamo al libro e al furto che sto confessando pubblicamente. Ho iniziato a leggerlo e sin dalle prime pagine di presentazione me ne sono invaghita. La presentazione è fuori dal comune, ma non è bella perché è fuori dal comune, è bella perché è bella, perché l’ironia comincia da lì, dalla presa per il culo di se stesso. Ah! L’arte sottile dell’autoironia. Potrei passare sopra molti difetti se affrontati con autoironia, e sana presa in giro di se stessi. Quanto mi spiace quando mi prendo troppo sul serio!.
Insomma Roberta, me lo sono messa in borsa. Pensavo di restituirlo, giuro. Poi l’ho sottolineato e glossato. Era mio. Sarebbe quantomeno stato apprezzabile che te lo confidassi. Lo faccio adesso. Lo confesso: non intendo restituirtelo.
Io e il libro.
È importante – di tanto in tanto – che ci venga rammentata l’importanza di buttarsi alle spalle cianfrusaglie del passato e provare una lettura diversa della vita e della storia. Questo libro l’ha fatto.
***


Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino.
L’ingegnere, il sottotenente degli alpini, il cultore della lingua…lo scrittore. È riuscito a farmi leggere un giallo, genere che non prediligo, delineando un commissario sornione che si aggira in una Roma dai colori paesani, fra benpensanti e poco di buono che si confondono fra di loro. Uno scrittore conosciuto in giovanissima età, in quarta elementare quando, in un tema sulla guerra, citai Niente e così sia di Oriana Fallaci e la maestra, donna eccezionale e votata all’insegnamento, mi disse che se proprio dovevo fare letture non adatte alla mia età e letture di guerra, tanto valeva leggere Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda. Il giorno dopo me lo portò e quello successivo iniziai a leggerlo.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché mi fa pensare a mio padre esattamente come mi piace pensarlo: immerso nella lettura di un giallo, sdraiato sul letto oppure sull’amaca in campagna, sotto al pino. Sono diversi i gialli che piacciono a lui, ma ha letto con gusto Il Pasticciaccio e ricordo un piacevole pomeriggio di primavera in cui ne abbiamo parlato. Non è sovente che parli con mio padre giacché l’arte di discutere coi propri genitori si coltiva in un tempo che non mi è stato mai concesso. Ma quel pomeriggio di primavera …
Io e il libro.
Non c’e stata immedesimazione con un personaggio, piuttosto con l’ambiente, con quello scorrere dei giorni, con quella ricerca di una verità che è diversa a seconda dell’angolo da cui guardi.

***

Paradiso Perduto
Henry Miller
Fu Anaïs Nin che mi presentò a Conrad Moricand. Lo portò nel mio studio alla Villa Seurat un giorno d’autunno del 1936. La mia prima impressione non fu in complesso favorevole. L’uomo sembrava tetro, pedante, egocentrico, troppo sicuro di sé. Si portava appresso una sorta di alone fatalistico.
Era il tardo pomeriggio, quando arrivò, e dopo aver fatto quattro chiacchiere andammo a mangiare in un piccolo ristorante della avenue d’Orléans. Da come esaminò il menu capii subito che era un tipo meticoloso. Chiacchierò senza interruzione per tutto il pasto, pur continuando a mangiare di gusto. Ma era una conversazione, la sua, di quelle che non si fanno a tavola, di quelle che rovinano la digestione.
Aveva un odore che non potei fare a meno di notare. Era un misto di lozione per barba, cenere bagnata e tabac gris, con l’ombra di un profumo indefinibile, elegante.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché in questo periodo di grande invadenza da parte della chiesa e dei suoi vertici, poco attenti alle anime e molto alla politica, mi piace ribadire questo passaggio: A me l’uomo in potenza non interessa. Mi interessa ciò che un uomo attua, o realizza, del suo essere potenziale. E cos’è un uomo in potenza, dopo tutto? Non è forse la somma di tutto ciò che è umano? Divino, in altre parole? Tu pensi che io stia cercando Dio. Non è vero. Dio è. Il mondo è. L’uomo è. Noi siamo. La piena realtà, questo è Dio: e l’uomo, e il mondo, e tutto ciò che è, compreso l’innominabile. Io sono per la realtà. Sempre di più. Sono un fanatico della realtà, se vuoi.
Io e il libro.
Il rapporto con questo libro è profondo per ciò che mi ha ispirato in un momento molto particolare della mia vita, di cui non ho voglia di parlare. È profondo. Tutto qui.

martedì 24 aprile 2007

Nominations

Interessante la proposta di Diego e la colgo sicuramente, se non altro per ripercorrere qualche bel momento di lettura (che non è per forza legato a grandi libri), sebbene mi venga l'orticaria all'idea di aderire a una catena di Santantonio. Però mi prendo un po' di tempo. Sono giorni duri. Il 26 e il 27 devo essere a Padova, il 2 maggio a Roma e dal 5 al 10 (compresi) sarò a Madrid, dal 20 al 25 dovrei essere contemporaneamente a Bologna, a Roma e a Crotone e - ma è ancora da accertare - a Cagliari. Sto attendendo risposta per una richiesta di clonazione inoltrata già da un po' di tempo. Ah! Dimenticavo, domani lavoro.
Se trovo un attimo sabato o domenica mi attivo, altrimenti mi faccio il nodo al fazzoletto e appena possibile manterrò l'impegno.
Intanto, ma chiedo a Diego se si può fare, nomino (Pensare che mi sono vantata finora di non aver mai usato questa espressione!):

Bhuidhe (perché potrebbe stupirci);
Angelo
(perché penso che abbiamo qualche lettura in comune);
Dandapit
(perché mi piace spaziare nel suo mondo);
Laura&Lory
(perché sono curiosa);
Patti
(perché mi piacerebbe stanarla).

Non ho nominato Lucia perché il suo Blog ha un format che non è adatto a questo tipo di post, e quindi la invito a farlo attraverso il mio se vuole. Sennò a che serve un cassetto delle idee libere?

sabato 21 aprile 2007

Voi cosa ne pensate?

Dandapit, propone una discussione sul senso valoriale ed emozionale che si attribuisce a un modo di dire: "Le chiacchiere stanno a zero!". E' interessante notare come, semplicemente attraverso una frase scritta e proposta come un quadro sul muro, si sveglino in noi umori, sensazioni, ricordi... E sarebbe interessante avere il parere di tutti. Potete lasciare le vostre impressioni qui.

venerdì 20 aprile 2007

Alla faccia dello stereotipo!

Dopo due ore di autostrada, un'ora e mezzo di traffico sul G.R.A. trionfo romano della viabilità, tre ore di briefing, un'ora per presentare un progetto, mezz'ora circa di sorrisi e strette di mano, un trancio di pizza e un'immancabile cocacola, altre tre ore fra G.R.A. e autostrada, mezz'ora per il meeting report, q.b. per delineare le prime bozze di una strategia di comunicazione (a mente fresca prima che il brief si disperda nella mia interpretazione creativa che sarà utile solo nella seconda fase della messa a punto del nuovo progetto e nell'individuazione del team di lavoro), venti minuti per arrivare a casa, il tutto infarcito da decine di telefonate e con inizio alle ore 4.45... dopo tutto questo è piacevole abbracciare mia figlia.

giovedì 19 aprile 2007

Quelle melodie che ti tengono sveglio...

Certe notti ti svegli di soprassalto con in mente un'idea, una melodia, una poesia, l'incipit di un romanzo... A chi non è successo? Credo che Diego ne abbia tracciato un disegno squisito con il suo uomo nuvola.

Feedback (E.d.S. ---01---)

Confesso che mi attendevo un po' di interesse in merito a questo esercizio, ma il risultato è andato ben oltre le mie aspettative e di questo vi ringrazio. Si sono creati spazi di discussione che mi hanno realmente emozionata perché trovo essenziale alla crescita dell'interazione sul web e alla scrittura (non solo quella digitale) lo sviluppo di alcune tematiche, fra le quali senz'altro quella relativa al target. Si sono create gemmazioni interessanti. Si sono creati piccoli malintesi che mi auguro di aver appianato, perché credo che non si tratti di verità taciute o raccontate giacché nessuno è portatore del Verbo, si tratta semplicemente di scambiarsi opinioni con la consapevolezza di essere letti, condivisi o meno. Personalmente soffro di quella che io stessa definisco "sindrome del pubblicitario", una vera deformazione che ti porta, bene o male, a targettizzare e canalizzare la comunicazione. Ma - per fortuna c´è sempre un ma (non sopporto quelli che sostengono che non si debba mai iniziare una frase con il "ma") - c´è di fatto che sono sempre riuscita a distinguere due universi: quello della scrittura di lavoro e quello della scrittura personale. Presumibilmente lo stile resta invariato perché lo ritengo personale, nel senso che fa parte di me e non nel senso che è una mia proprietà. Ho letto a sufficienza per verificare, pagina dopo pagina, che, molto spesso, pensieri che ci sembrano unici, pensati per la prima volta, originali nella forma, nello stile, nel tono... finiscono per essere riconosciuti in altri scritti, in altri autori, in altre epoche storiche. E l'idea che me ne sono fatta io è che si tratti di una meravigliosa fusione di pensieri.
La mia scrittura di lavoro è senz'altro vincolata a un target che deve essere ben delineato sin dall´inizio e raggiunto attraverso forme espressive comuni, indici linguistici ben definiti, toni studiati in base alla tipologia di messaggio. E soprattutto chiarezza. Scrivere per un target dà dei risultati e presumibilmente gli scrittori da grandi numeri (di copie vendute) ne tengono debito conto. Esempio lampante, Federico Moccia che non solo scrive per un target specifico, ma anche con un obiettivo di produzione cinematografica. Non lo sto giudicando, esercito il diritto di dire che non mi piace ciò che scrive e non mi piace il modo in cui lo fa, ma non posso certo non riconoscergli che ciò che scrive e il modo in cui lo fa è assolutamente in linea con il suo pubblico (il suo target).
La mia scrittura personale è invece libera e traccia – o tenta di tracciare – con una sequenza che talvolta può apparire criptica, le linee del mio pensare che non sempre è lineare, quasi mai conforme alle tendenze e sicuramente non racchiuso in schematici preconcetti né di forma né ideologici. Condivide con la prima la ricerca della chiarezza che può senz'altro sfociare nell'esubero di dettagli. Tuttavia, ritengo che in questo la mia scrittura mi somigli parecchio. Mi piace osservare. Guardo le espressioni della gente, vado al di là del sorriso stampato sulla faccia. Osservo il fruttivendolo che espone la frutta e i suoi movimenti nello spostare le casse di legno che talvolta sono dotate di un'apposita maniglia, e noto che il legno è talmente di cattiva qualità che non si mantiene compatto e si sfalda in listarelle talvolta talmente sottili da diventare schegge dolorose che si conficcano nelle dita callose dalle quali fuoriesce una minuscola goccia di sangue e mi ricordo di 'Gurnatedda che ricamava seduta davanti alla finestra e si pungeva le dita delicate con l'ago. Osservo e parlo con tutti i taxisti che incontro (tanti!) e mi nutro di storie che si muovono sotto a quelle schiene poggiate su uno schienale in finta pelle per oltre dieci ore al giorno. Le storie che scrivo – quando ne ho voglia e solo se mi scendono direttamente di dentro – non riescono a prescindere da ciò che vivo, vedo, assaporo, annuso. E mi capita, a volte, di domandarmi: per chi le scrivo? Forse solo per non farle perdere nel tempo, per dar loro uno spazio fisico che sia più sicuro della mia testa. O, come Guccini "ho tante cosa ancora da raccontare, per chi vuole ascoltare...".
La vera sorpresa è data dal fatto che vi sia piaciuta la storia o, almeno, quella storia che ognuno di voi si è costruito dietro qualche minuto speso a cercare un cellulare o in macchina ad aspettare impazientemente di partire. L’attesa, senza che io me ne accorgessi neppure, è diventata la protagonista attorno alla quale hanno gravitato le fantasie. E forse, oltre la forma, oltre il tono, oltre lo stile, oltre il target … sta nel riuscire a non deludere le aspettative del lettore la forza di uno scrittore.
Vi ringrazio tutti per i bellissimi commenti.

domenica 15 aprile 2007

E.d.S. --- 01 ---


Era maledettamente tardi. Sua madre continuava a pigiare sul clacson, insopportabile come la voce stridula di una donnicciola sguaiata. Dove diavolo aveva messo il cellulare? Non poteva partire senza di lui, sarebbe stato l’unico contatto con il suo mondo una volta arrivata “là”. Pensò di cercarlo nella tasca della giacca blu. L’aveva indossata il giorno prima e non l’aveva messa in valigia. La giacca blu era elegante e “là” non avrebbe avuto alcuna occasione di indossarla. Tanto valeva lasciarla nell’armadio. Non c’era. Il clacson continuava a reclamarla e l’innervosiva la frenesia di sua madre così desiderosa di andare “là”. Perché poi? Perché tanta fretta? Si arrampicò sul letto e guardò sopra ai libri appoggiati sulla mensola. Era impossibile che il cellulare fosse in quel posto. Ricordava bene di averlo usato la sera prima. Cercò di ripercorrere mentalmente tutti gli spostamenti. Il pomeriggio era andata a fare un giro con Elsa e Bea. Elsa l’aveva chiamata verso le cinque, avevano programmato di vedersi al solito posto, sul lungomare, davanti al bar di Nicola il pollo. Ogni volta che pensava a Nicola il pollo le veniva da ridere perché quel soprannome era cucito perfettamente addosso al suo portamento impettito e alla sua camminata a scatti. Anche in quella situazione di assoluta criticità non poté fare a meno di sorridere. Si ricordò che il pomeriggio precedente Nicola il pollo aveva tentato un approccio improbabile con la sua amica. Sopra ai libri ritrovò l’orologio che aveva cercato invano qualche settimana prima e un fazzoletto bianco e blu con una minuscola goccia di sangue rappreso. Era di Davide quel fazzoletto. Glielo aveva stretto attorno al polso quando si era tagliata cercando di recuperare l’armonica di Vince’ che era caduta dietro la rete del campo di pallavolo, infilando la mano nell’esagono di filo di ferro. Lo aveva conservato perché le ricordava quel gesto di amore. O forse era un gesto di amicizia che lei aveva voluto interpretare come gesto d’amore. Ricordò di averlo nascosto perché sua madre non lo trovasse. Lo avrebbe messo in lavatrice, insieme agli slip e alle federe.
Elsa e Bea erano già davanti al bar di Nicola il pollo, sedute sulla panchina di fronte al mare. Chiacchieravano fitto fitto e aveva avuto l’impressione che stessero parlando di lei perché al suo arrivo avevano interrotto il discorso. Non c’erano segreti fra di loro e non si era mai sentita di troppo con le sue amiche fino a quel momento. Elsa l’aveva presa sottobraccio e le aveva sussurrato qualcosa su Davide. Lo avevano incontrato, lei e Bea, mentre scendevano dalla parte alta del paese. Quel pomeriggio il cellulare ce l’aveva perché ricordò che sua madre l’aveva chiamata per dirle che avrebbero cenato prima del solito per andare a letto presto e non partire troppo tardi l’indomani mattina. E lo aveva anche al rientro perché Bea l’aveva chiamata per quell’ultimo saluto prima di partire. Si erano promesso di sentirsi ogni giorno.
Il clacson urlò ancora l’impazienza di sua madre, mentre si stava domandando se Davide avesse detto qualcosa alle sue amiche. La stranezza di quel silenzio improvviso l’aveva colta di sorpresa e non si era preoccupata d’altro. Non aveva domandato di Davide. Ora la curiosità la invase. Avrebbe voluto chiamare Elsa.
Era ancora arrampicata sopra al letto quando il cellulare squillò. Che stupida! Perché non ci aveva pensato? Seguì il suono. Attraversò il corridoio. Diventava sempre più forte, più vicino. Veniva dalla sala, dal divano, da sotto al cuscino. Era sua madre. Non rispose. Infilò il cellulare in tasca e richiuse la porta dietro di sé. Fra qualche ora sarebbero state “là”.

venerdì 13 aprile 2007

Che ci faccio qui?


Che ci faccio qui? è il titolo di un bellissimo libro di Chatwin, scrittore che leggo con grandissimo piacere e trasporto, che riesce a condurmi nei meandri profondi del pensiero che si confonde con l’agire in un mondo a sé: il viaggio.
Una delle cose che voglio fare è un viaggio da raccontare, un viaggio da descrivere attraverso immagini, disegni, racconti. Non di lavoro, per carita! Ne faccio spessissimo di quelli. Forse l'ho già fatto. Forse lo farò presto. Forse non lo farò mai. Non pianifico le emozioni giacche trascorro il 98% del tempo a pianificare, organizzare, elaborare strategie e time sheet per lavoro.
Questo desiderio mi porta a leggere con enorme passione i diari di viaggio e fra questi ho trovato un viaggio in Nepal che mi ha coinvolta per la naturalezza dell’immagine che ne viene fuori. È il diario di Laura. Un viaggio che va letto e gustato come il coraggioso affrontare un mondo distante e non solo geograficamente, non solo culturalmente, non solo religiosamente. Distante perché distanti sono i modi di intendere la quotidianità: un piatto di riso, l’ospitalità, l’intendersi con il linguaggio universale dei sentimenti.

Laura, aspettiamo il seguito.

giovedì 12 aprile 2007

La gemmazione che parte dal link.

Internet mi ha dato lavoro quando ancora moltissimi italiani si domandavano a cosa mai servisse avere un computer in ufficio. Per parecchi anni, tuttavia, è stato solo un canale professionale. Erano gli anni di “Un sito web? Seee… io devo ancora mettere a norma l’impianto elettrico!”, erano gli anni di “Ma che cos’è un’e-mail?”, erano gli anni di “Sì, ma mi mandi anche un fax!”.
Frequentavo l’università, scrivevo per le agenzie lunghi testi di brochure tecniche che i copy conclamati (scribacchini di mestiere, ma artisti nell’anima) si rifiutavano di scrivere perché comportava fatica e studio del settore merceologico e non solo creatività sintetica che si esprime in una headline. Poi arrivò mia figlia. Ero giovane, con la laurea che oscillava sulla testa come la spada di Damocle e il lavoro che iniziava a bussare alla mia porta anziché essere io a suonare i campanelli. Ero appena diventata socio tecnico in una cooperativa che aveva ottenuto, con un mio progetto/studio, uno dei primi finanziamenti che poi sarebbero evoluti nei più moderni fondi strutturali. Ma quel mostriciattolo così piccolo e morbido, così spudorato da giungere alla vita con gli occhi aperti, un ciuffo di capelli neri che le davano l’aspetto di un ananas e un urlo di guerra che non sembrava affatto un vagito ma un imperativo assolo che si estendeva fino a muovere le corde di quell’anima che scoprii capace di emozionarsi, aveva bisogno di me. E io l’amavo senza un motivo. Non perché fosse bella, buona, simpatica, gentile, intelligente, vivace… Non lo sapevo come sarebbe stata, l’amavo e basta. Mi dedicai a lei. Internet divenne il mio contatto con il lavoro, e per tre anni restai dietro le quinte di una realtà che cresceva a vista d’occhio. Quando ripresi i miei ritmi mi dedicai al trade marketing e alla promozione dei prodotti tipici facendo quelle lunghe marce su Bruxelles che hanno portato – con l’ausilio di uomini coraggiosi (poche donne) che difficilmente vengono citati per il loro contributo a un mercato nazionale che è fra i più stimati in Europa e in taluni casi nel Mondo – alla facile elaborazione odierna dei disciplinari di produzione. Erano gli anni di “Internet è un grande bluff”, erano gli anni di “Internet in Italia non riesce ad attecchire”, erano gli anni di “Nulla è come l’advertising istituzionale”. E fra una campagna e l’altra mi sono trovata catapultata – anche con la complicità di un caro amico - negli anni dei nick e delle list, dei forum e delle chat, di Mannheimer e di “Sei malato di Internet se ti alzi di notte per far pipì e ne approfitti per scaricare la posta!”. Ho trovato immediatamente affascinante questa realtà che, tuttavia, ho sempre tenuto distinta dalla vita reale, quella che, in fin dei conti, paga la bolletta finale del viaggio su questo terreno assai sdrucciolevole che è l’esistenza. Ed ora eccomi negli anni di “Ehi! Ho aperto un Blog, facci un salto, lascia qualche commento...:-)”, negli anni di Oggi ho la diarrea, qualcuno ha una soluzione da consigliarmi?”. Ho mantenuto – non so dire se sia un pregio o un difetto – un certo entusiasmo per tutto ciò che è comunicazione innovativa, per tutto ciò che tende ad avvicinare lo scrittore al lettore, l’emittente al fruitore si leggerebbe nei testi universitari, e la curiosità, mia compagna di avventure, mi porta inevitabilmente a toccare con mano, a sperimentare ed esplorare, mantenendo, tuttavia, un distacco ammortizzante fra l’emozionalità e l’analisi. Ed è questo ammortizzatore che mi rende evidente la dissonanza abissale fra ciò che io intendo per rete e comunicazione in/di rete che costituiscono il futuro della letteratura, del giornalismo, dell’insegnamento, dello spettacolo (con l’eccezione del teatro che per sua natura è avulso da ogni tecnologia e può sopravvivere, deve sopravvivere, in un tessuto anche esclusivamente emozionale)… e la troppo comune e diffusa tendenza a vomitare banalità che nulla aggiungono a un apparato comunicativo già saturo e conteso. Vi è, troppo spesso, il timore di disperdere i propri lettori e si bara nella citazione delle fonti, alla faccia del creative commons, non si linka e non si riconosce, si mantiene una pacata enfasi nell’attribuzione di contenuti interessanti. Fra i Blog che frequento – per amicizia o perché mi ci sono imbattuta navigando – ve ne sono vari interessanti, ma ce n’è uno, quello di Diego D’Andrea che, a mio avviso, ha quell’umiltà indispensabile a chi sa cosa significa fare la rete senza timore di dispersione, allargando le vedute e ampliando lo spessore dei contenuti attraverso link e considerazioni personali. Perché fare la rete significa espandere ed espandersi, contribuire a far risorgere dalle proprie ceneri l’interazione intelligente, anche attraverso la gemmazione virtuale positiva che è diversa dal cannibalismo e dal copiaincolla.

martedì 10 aprile 2007

Racconti Audio

Prima parte: La faccia del Blog.

Federico: Papà, cosa state facendo?

Angelo: Stiamo leggendo quello che zia Assu ha scritto sul suo Blog.

Federico: Anche tu hai un Blog?

Angelo (scoppiando a ridere): Nooooo, la zia ha taaaanti Blog.

Io (fingendomi offesa): Beh, ho tante cose da scrivere!

Federico: Posso leggere anch’io?

Io (contenta per l’attenzione che sto ricevendo): Certo Federico, vieni qua. Il tuo papà mi sta facendo vedere come si fa a cambiare certe impostazioni.

Federico: Perché?

Io: Perché voglio un Blog personalizzato, che non sia per forza uguale agli altri.

Federico: Perché?

Io: Federico, ma non sei cresciutello per i perché?

Federico (che a questo punto ci prova gusto): Perché?

Io: Mah…non mi piace restare incasellata in uno schema precostituito…

Angelo (mentre mi fionda addosso un’occhiataccia perplessa): Non le piacciono i modelli impostati dal web e ne vuole uno diverso.

Federico: Ah, non vuoi restare incasellata in un template perché vuoi che il tuo Blog ti somigli un po’.

Io (mentre restituisco ad Angelo l’occhiataccia): Hai colto! Sei un genio.


Seconda parte: Il Blog parla?

Federico: Zia, perché stai costruendo quel Blog?

Io: Quale?

Federico: Quello che si chiama “Racconti Audio”.

Io: È solo un’idea. Penso di registrare alcuni racconti che ho scritto. Un esperimento. Mi dai una mano?

Federico: Sì. Creiamo un Blog che parla.

Io: Bene, procediamo.

Federico: È pronto?

Io: Sì è pronto. Clicca qua.

domenica 8 aprile 2007

Un lungo addio

Ilaria che prova.

sabato 7 aprile 2007

Dico, Buona Pacs a tutti.

Caro Alessandro,
ti ringrazio per la tua lettera accorata e per il permesso accordatomi di pubblicare sul Blog la mia risposta. Ho ritenuto di tagliare le parti più personali.

Carissimo,
la tua lettera mi ha colpita dritto al cuore. Così almeno scriverebbe qualche sdolcinato individuo di comune conoscenza. Io invece, con il cinismo che mi contraddistingue e che, oramai, è diventato mio compagno di vita, se non altro perché, genericamente, mi consente una certa libertà nell’esprimere ciò che sento, come lo sento, mi limito a rispondere che la tua lettera non ha creato alcun movimento tellurico nel mio cuore. Piuttosto ha accresciuto la consapevolezza circa una sempre più diffusa cultura del “cita e fuggi” che – figlia dell’usa e getta, già variamente diffusa – impera nella nostra esistenza.
Condivido il tuo sdegno nei confronti del sempre minore interesse del popolo italiano verso i Pacs/Dico. Condivido anche la rabbia che emerge netta e feroce fra quelle poche righe che mi hai scritto. Credo forte l’esigenza di una rivisitazione intellettuale e per nulla emozionale del concetto di natura e contro natura e sono profondamente persuasa che nulla di ciò che riguarda la sfera umana sia naturale se rapportato alla Natura. Non lo è Dio che è un’invenzione variamente colorata degli uomini, qualunque sia il suo nome. Non lo è la tendenza a prolungare la vita, giacché la soluzione naturale è proprio la morte. Non lo è l’unione matrimoniale civile o religiosa che sia.
E se tutto ciò è contro natura (e sono profondamente persuasa che lo sia) lo è anche chi nella presunta condizione naturale inzuppa il pane quotidiano, chi si pone su un piedistallo di infallibilità nutrendosi di debolezze umane e fondando sull’incapacità dell’uomo a una spinta di vero, coraggioso, sano individualismo, il suo potere di guida spirituale e politica.
(…)
Ho come la sensazione che stiamo ritornando al medioevo della conoscenza: la conoscenza indotta e castrata, dosata e gestita, immorale in ogni sua manifestazione di pensiero libero. E mentre si vota – impunemente - l’erezione in diretta dell’ultimo grande fratello nazionale, si sfracellano sul suolo arido dell’ignoranza i diritti degli omosessuali perfino di essere uguali ai peccatori etero giacché la Chiesa non fa propaganda di valori, non si schiera contro i matrimoni civili ma esplicitamente contro gli omosessuali; non si schiera dalla parte dei minori abusati psicologicamente e fisicamente nelle “famiglie naturali”, ma si oppone fermamente all’adozione da parte di coppie omosessuali; non si limita a parlare di Dio (suo sacrosanto diritto), ma pretende di parlare in nome di Dio; non si limita a inculcare i suoi valori (altro diritto sacrosanto per chi crede in quei valori), ma pretende che siano accettati come legge di Stato.
Di fronte a ciò, carissimo Alessandro, mi sento, anch’io come te, profondamente amareggiata, ma, a differenza di te, non me la sento – non ancora – di arrendermi e ti invito a non farlo perché il diritto al libero pensiero non lo può cancellare nessuno, né i politici incoerenti con gli stessi valori che vanno proclamando, né il papa che ha potere esclusivamente sulle menti deboli incapaci di elaborare pensieri propri.

(…)
Con affetto.
Assu'

mercoledì 4 aprile 2007

Achtung Achtung (con tanto di punto esclamativo!)





Che dite, questo lo inseriranno su quel sito?
Sarà che ho imparato a un certo punto della vita a non accettare caramelle dagli sconosciuti (sebbene non siano sempre e solo gli sconosciuti a fregarti!), ma non mi è mai saltato in mente di acquistare alcunché da tipi che ti fermano in strada o in autostrada. Bene che ti vada, cioè se l'oggetto funziona e non è fasullo, è rubato e quindi, quantomeno, sei accusabile di incauto acquisto.
Il gestore del distributore di benzina nei pressi di Avellino, dove ho scattato la foto, ha tenuto a precisare: L'avviso, più che altro, serve per gli stranieri. Quelli acquistano di tutto! A me qualche perplessità rimane e penso che finché circoleranno cartelli come questo, l'italiano sarà sempre inquadrato nel suo stereotipo di napoletano della peggior specie.