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sabato 17 novembre 2007

Michele, il dolore, il divertimento: i volti della mafia.

Stanotte ho sognato Michele. Non mi era ancora capitato di sognarlo da quando è morto. Avevamo entrambi ventotto anni, quando è salito su un’auto da cui non è più sceso. Quindi sono trascorsi dodici anni senza che il mio inconscio lo rievocasse. Eppure ci penso spesso a lui. Per esempio mi viene in mente il giorno che ogni adolescente attende con un’ansia che poi non ti spieghi: il mio diciottesimo compleanno. È sempre stato bello, Michele, ma quel giorno lo era più del solito e fece strage di cuori adolescenti. “Tuttomoto” lo chiamavano, Michele, ché adorava correre sulla sua moto e leggere l’omonima rivista. Un vezzo poco usuale fra quelli della mia specie. Non la moto ché faceva figo [togo, dicevamo noi ché anche nel linguaggio cercavamo una nostra identità], ma la lettura, figurarsi abituale, di riviste specializzate. Era popolare, Michele. Ed è nato, come me, in terra di mafia rurale che ha trovato l’unica evoluzione possibile nell’eroina. E all’eroina faceva gioco la popolarità di un adolescente. L’eroina lo reclutò dapprima fra i soldati dello spaccio, poi, inevitabilmente, nella fanteria dei visitors, così li chiamavano quelli della mia specie gli eroinomani che si sbattevano dal mattino alla sera per una dose. Michele è morto senza che nulla di lui ricordasse la sua bellezza. Prima e dopo di Michele sono morti: Giuseppe detto Peppe, Anna Lucia detta Sciusciù, Giuseppe detto Spinello, Gianni detto Il Torinese, Carmela detta Caccà, Concetta detta Oncetta. Sono usciti dal tunnel, così chiamavano il complesso circuito medico-mafioso dell’eroina i media: la Peppa, Tizzone, Frufrù.
Ci sono stati tanti, tantissimi, Peppe, Scisciù, Spinello, Il Torinese, Caccà, Oncetta e qualche Peppa, Tizzone e Frufrù negli anni a venire.
Mi sono passati davanti agli occhi quando facevo volontariato al Sert. Li ho visti urlare e li ho sentiti darmi della puttana se non gli davamo qualche "dose" di metadone da portarsi via. L’alternativa legale al furto, alla prostituzione, al facile espediente del delinquere occasionale. Li ho visti morire di Aids, talvolta.
Poi non li ho visti più.
Poi l’eroina è scomparsa e i Peppe, Scisciù, Spinello… si sono trasformati in paninari con i piedi infilati nelle Timberland e le narici piene di polvere bianca. Le logiche di mercato, la mafia le applica prima di ogni manager del marketing: l’eroina provocava una dipendenza troppo evidente, la “scimmia” era dolorosa e il dolore difficilmente trova un mercato a meno di non trasformarlo in credo religioso, come insegna il marketing della chiesa. La massificazione dei rapporti internazionali, contemporaneamente, facilitava l’ingresso della cocaina attorno alla quale, inconsapevolmente [?], media e informazioni mediche avevano creato l’alone di “santa non dipendenza” oltre a uno “status” corrispondente al “ricco”, al “vip”, al “bello-ricco-dannato” che si accompagnava ai nuovi contenuti veicolati attraverso i mezzi che, parimenti, privilegiavano la bellezza, la ricchezza, l’esagerazione in tutto.
Al dolore la mafia-marketing ha sostituito il ben più allettante divertimento. E mentre si sviluppavano contenuti da vuoto pneumatico e si spogliavano, sempre più, le donne in televisione, si alzavano i volumi nelle discoteche e si insonorizzavano le pareti per consentire di andare avanti col divertimento ad libitum, supportando la pur sempre umana resistenza con pillole magiche, ché anche nell’alchimia la mafia è maestra. E non va sottovalutato il ruolo della psico-mafia, con un osservatorio fra i migliori al mondo in materia di anticipazione delle tendenze; né della info-mafia, in grado di veicolare messaggi che promettono divertimenti certi, mascherati da cronaca nera; né della recluto-mafia capace di assoldare poveri cristi che nulla più hanno da perdere giacché hanno già lasciato quel poco che avevano, le radici, in un “altrove” che non esiste più o forse non è mai esistito.