Il convegno è finito. È andato bene. Bene la conferenza stampa. Bene le interviste. Bene il faccia a faccia fra le istituzioni e gli operatori del comparto zootecnico. I tecnici, veloci, consapevoli dei loro gesti, ripetuti più e più volte, smontano pannelli e impianto audio-visivo. Gli auditori, non tantissimi perché si tratta di un incontro tecnico a invito, stringono mani e strappano qualche promessa ai politici presenti. La voglia di fumare è insistente dopo tre ore. Stringo poche mani, quelle di chi si ricorderà la mia faccia anche domani. Scendo le scale della vecchia corte restaurata. Finalmente aria. Finalmente sola con le mie Camel. Ne tirò fuori una e la porto alle labbra. Arriva il politico di spicco del convegno. Viene verso di me con la mano protesa in avanti. Mi dice grazie. Mentre cerco di capire quanto vale un grazie leghista accenno un sorriso e ricambio la stretta di mano. Poi continuo ciò che avevo iniziato: cerco l’accendino nella borsa. Lui mi dice che è d’accordo con me circa il ruolo del trade. Allude al mio intervento. Scambiamo qualche parola sul sistema di controllo e qualità dei prodotti italiani. Intanto porto all’altezza della bocca l’accendino e accendo la sigaretta. Lui mi dice: Vedo che nessuno è perfetto! Impiego qualche secondo per capire. Poi seguo la traiettoria del suo sguardo e giungo fino all’accendino bianco con la scritta rossa: Le donne DS riaccendono la politica. Sorrido, e faccio presente che è il regalo di una cara amica, e che - comunque - il mio pensiero politico è sicuramente più di sinistra che di destra. Mi strizza l’occhio e mi dice: Ognuno ha i suoi peccati, ma non cambia per nulla quello che penso di lei. Complimenti.
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Oltrepasso le mura di Montagnana e mi sento immersa in un’atmosfera di altri tempi. Sagre e fiabe in piazza. Aria d’estate. Calma. Avverto l'effetto della calma respirata. Giunge dentro come ospite sconosciuta. L’hotel è caldo ed accogliente. I proprietari sono sorridenti e il loro accento veneto solletica quel piacere che da sempre mi danno i dialetti e le parlate. Calma. Entra dentro con insistenza e smorza quella naturale freneticità un po’ schizofrenica che talvolta avverto in me. Le abbiamo riservato una bella stanza. Grazie, faccio io, un po’ sorpresa da un’accoglienza che va oltre la naturale cortesia. È familiarità quella che mi arriva addosso?
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Ma tu che vuoi? mi domanda lui.
Non lo so. Forse quando l'avrò fra le mani saprò riconoscerlo.
Stai dicendo una stronzata, lo sai?
Sì...ma oggi non ho voglia di rispondere.
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Sole e polvere. Polvere addosso. Polvere in bocca. Non lo ricordavo più, anche se le sensazioni sono rimaste tali e quali, custodite dentro, identiche, attuali. Da quanto tempo non andavo in una pista di motocross? Da troppi anni. Da allora.
Sento il rombo dei motori e ho netta la sensazione del corpo teso in avanti, con le mani salde sul manubrio. La moto salta sugli ostacoli, sui panettoni… unico pensiero: Devo restare in sella. È difficile mentre sei su e la forza di gravita tira giù la moto dal culo. Devo restare in sella. Devo tenerla.
Da quanto non ci pensavo? Forse solo da ieri. Forse non ci ho più pensato da allora. Poi Michele è lì accanto a me. Michele chi? “Tuttomoto”. Ah, certo che lo conosco. Tutti conoscevano Michele, anche chi lo conosceva solo come “Tuttomoto”. Era bello Michele e parlava con un accento che conservava la esse trascinata della sua esperienza bolognese, a casa della sorella di sua madre. Era bastato un anno per renderlo “uno del nord”, quindi più ambito dei ragazzi nostrani, secondo quelle logiche di paese che attribuivano a tutto ciò che veniva da fuori un sapore diverso. E aveva passioni non comuni fra noi banali adolescenti: la filatelia e il motocross. Fu contattato da una società per correre e fare sul serio. Ma la sua notorietà fra tutti i ragazzi faceva comodo anche alla mafia di paese che usciva sempre di più dai feudi e si versava sulle strade. Ne vendette parecchia di eroina fino a restare incastrato pure lui. Un giorno eravamo sulle piste a correre, l’altro giorno mi faceva provare la sua moto e l’altro ancora non lo riconoscevo più. Cadavere buttato in mezzo alla strada come spazzatura. Quella spazzatura che si tende a ripulire parlando di un morto. Voglio scrivere di Michele in Quelli della mia specie. Forse lo farò. Forse no.
Sento il rombo dei motori e ho netta la sensazione del corpo teso in avanti, con le mani salde sul manubrio. La moto salta sugli ostacoli, sui panettoni… unico pensiero: Devo restare in sella. È difficile mentre sei su e la forza di gravita tira giù la moto dal culo. Devo restare in sella. Devo tenerla.
Da quanto non ci pensavo? Forse solo da ieri. Forse non ci ho più pensato da allora. Poi Michele è lì accanto a me. Michele chi? “Tuttomoto”. Ah, certo che lo conosco. Tutti conoscevano Michele, anche chi lo conosceva solo come “Tuttomoto”. Era bello Michele e parlava con un accento che conservava la esse trascinata della sua esperienza bolognese, a casa della sorella di sua madre. Era bastato un anno per renderlo “uno del nord”, quindi più ambito dei ragazzi nostrani, secondo quelle logiche di paese che attribuivano a tutto ciò che veniva da fuori un sapore diverso. E aveva passioni non comuni fra noi banali adolescenti: la filatelia e il motocross. Fu contattato da una società per correre e fare sul serio. Ma la sua notorietà fra tutti i ragazzi faceva comodo anche alla mafia di paese che usciva sempre di più dai feudi e si versava sulle strade. Ne vendette parecchia di eroina fino a restare incastrato pure lui. Un giorno eravamo sulle piste a correre, l’altro giorno mi faceva provare la sua moto e l’altro ancora non lo riconoscevo più. Cadavere buttato in mezzo alla strada come spazzatura. Quella spazzatura che si tende a ripulire parlando di un morto. Voglio scrivere di Michele in Quelli della mia specie. Forse lo farò. Forse no.
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Ma perché tieni un blog? mi domanda lui.
Mi piace. Mi dà modo di sfogarmi e di riordinare pensieri che resterebbero in spazi senza tempo. Certe volte ripenso a mio nonno, alla perdita della memoria. Mi piace scrivere quello che mi viene per la testa.
Sì ma perché un blog? basterebbe un diario, per questo.
È che su un blog ti rispondono, hai il parere degli altri.
Quindi scrivi per avere commenti?
No.
Allora perché un blog?
Perché provo a fare la rete, perché voglio esserci anch’io.
Quindi tieni un blog perché pensi di saper fare la rete?
Accidenti, no! Io…
Ok, ho capito, non lo sai perché tieni un blog.
Lo odio. Certo che lo so perché tengo un blog (?).
Mi piace. Mi dà modo di sfogarmi e di riordinare pensieri che resterebbero in spazi senza tempo. Certe volte ripenso a mio nonno, alla perdita della memoria. Mi piace scrivere quello che mi viene per la testa.
Sì ma perché un blog? basterebbe un diario, per questo.
È che su un blog ti rispondono, hai il parere degli altri.
Quindi scrivi per avere commenti?
No.
Allora perché un blog?
Perché provo a fare la rete, perché voglio esserci anch’io.
Quindi tieni un blog perché pensi di saper fare la rete?
Accidenti, no! Io…
Ok, ho capito, non lo sai perché tieni un blog.
Lo odio. Certo che lo so perché tengo un blog (?).
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Albertone è enorme. Arriva con un furgone e una donna armadio che gli fa da compagna, da fonico, tecnico e allestitore. Sale sul palco e le assi di legno si sollevano. Temo che non tenga. Lui ironizza. Lui e la donna armadio tirano fuori da furgone due casse acustiche, un microfono e qualche faretto di quelli che si attaccano alle americane. Ma non ci sono americane. Rinuncia alle luci. Prova l’audio e un fischio acuto investe i timpani. Sistema alla meglio il tutto, armeggiando col mixer. La donna armadio va a bere una cocacola al bar vicino. Lui suda sotto il sole che scotta come in una giornata di luglio. Mette su il tappeto musicale che salta senza un filo logico da Il pescatore a Mi sono innamorato di te. Le canzoni si intrecciano. Mentre l’improbabile duetto De Andrè-Tenco procede gracchiando, Albertone sfida il caldo e pone sul capo un fazzoletto di lana verde e inizia il suo spettacolo. Nessuno ride. Non fa ridere. Procede incurante di non avere pubblico. The show must go on, anche quando non è uno show ma una ridicola accozzaglia di vecchie battute recitate in veneto.
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Che c’è?
Che significa “che c’è?”
Significa “che c’è, cos’hai?”
Troppo generico. Che vuoi sapere? Definisci la domanda e ti darò una risposta.
Che significa “che c’è?”
Significa “che c’è, cos’hai?”
Troppo generico. Che vuoi sapere? Definisci la domanda e ti darò una risposta.
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Sei ore di quasi silenzio. Come si fa a non riempire il silenzio di chi ti sta accanto per sei ore con pensieri che sono – in fondo – esclusivamente tuoi? Non è facile vivere il silenzio. Troppo spesso siamo colti dalla frenesia di riempirlo ad ogni costo.
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Sosta in Autogrill. Toilette appena pulita. Profumo di pulito, non capita sovente. La signora sta ancora lavando per terra. Sbaglio ed entro nel bagno dei maschi. Ritorno fuori ridendo. La signora mi fa: Succede sempre! L'altro giorno una donna anziana entrando ha trovato due o tre uomini che stavano facendo la pipì in piedi, lì davanti. E' uscita sconvolta e ha fatto il segno della croce.
Chissà se è peccato!