Amo Napoli e nutro un affetto profondo per i napoletani. Presumo perché mi è capitato, da bambina, di trovarmi all’estero, in una realtà completamente sconosciuta e se non fosse stato per alcuni napoletani forse non avrei imparato a difendermi, a sentirmi orgogliosa di essere italiana. Inconsciamente mi sento in debito con questo popolo che ha la capacità unica al mondo di farti sentire parte di un sentimento, di una famiglia, di un’emozione.
È una città che conosco bene. Alcuni anni fa ci andavo spesso, organizzavo attività che davano lavoro, per una settimana ogni sei mesi, a molte decine di persone. Giovani a cui – erano loro a dirmelo – non pareva vero di poter lavorare onestamente.
Ma questa onestà aveva un suo prezzo: il doveroso, silente, codardo accettare quella logica di camorra che accomuna tutti inevitabilmente. I tassisti di Santa Lucia che utilizzavamo per i nostri spostamenti (circa una decina) avevano creato un loro “clan”, all’interno del quale non lasciavano entrare nessun altro. Lo scoprii per caso perché una sera presi un taxi qualunque e il tassista (un ragazzo giovane) mi chiese come fare per lavorare per noi. Gli feci presente che in genere erano i nostri tassisti di fiducia a presentarci i loro colleghi. “Ma quali colleghi, dottore’…quelli solo agli amici loro fanno lavorare”, accentuando la parola amici, certo che avrei capito.
Ora, posso dire con qualche certezza che almeno quei tre o quattro tassisti che ho conosciuto bene, sono brava gente. Non hanno nulla a che vedere con la camorra. Questo fa riflettere su quanto le logiche mafiose siano parte del tessuto culturale di questa città. A Napoli sei qualcuno se fai parte del Sistema. E se non ne fai parte è bene, comunque, che gli altri lo pensino. Con la loro intelligenza, quei tassisti napoletani ci ripagavano con l’unica moneta di scambio che conoscevano utile per noi che venivamo dal Nord: la protezione. “Stai sicura signori’ … se stai con me non ti succede niente!”.
Nascere a Napoli è una condanna.
Io stessa ho potuto constatare la voglia di scappare di molti giovani. Andare via, senza altro progetto se non quello di andare via. E quando accade che un giovane vada via, la gente gli si stringe attorno e senza domandare perché, dove, a fare cosa…gli urla: buono, fai buono. E in quest’urlo è celata tutta la disperazione di chi resta nel groviglio. Nascere a Napoli è una condanna. Direttamente per i Salvatore Giuliano condannati per dovere di nascita a non avere scelta, a sperare di sfuggire ancora ad agguati per la conquista del potere. Indirettamente per le Annalisa Durante violentate da un Sistema che non garantisce sicurezza neppure ai bambini e ai ragazzini. Indirettamente per i don Peppino Diana trucidati da un sistema che non accetta un confronto alla pari. Indirettamente per i parenti, gli amici, i conoscenti delle vittime di camorra costretti a rinnegare la verità, a farla morire nei ricordi, a stringersela al petto e perdonarsi facendo spallucce e dicendo “qui è così che vanno le cose”, o peggio sentirsi protagonisti, avere l’occasione di mostrarsi al Sistema in tutta la loro fedeltà e sperare così in quella protezione ambita che basta un nulla per perdere, perché la camorra non ha sentimenti.
È una città che conosco bene. Alcuni anni fa ci andavo spesso, organizzavo attività che davano lavoro, per una settimana ogni sei mesi, a molte decine di persone. Giovani a cui – erano loro a dirmelo – non pareva vero di poter lavorare onestamente.
Ma questa onestà aveva un suo prezzo: il doveroso, silente, codardo accettare quella logica di camorra che accomuna tutti inevitabilmente. I tassisti di Santa Lucia che utilizzavamo per i nostri spostamenti (circa una decina) avevano creato un loro “clan”, all’interno del quale non lasciavano entrare nessun altro. Lo scoprii per caso perché una sera presi un taxi qualunque e il tassista (un ragazzo giovane) mi chiese come fare per lavorare per noi. Gli feci presente che in genere erano i nostri tassisti di fiducia a presentarci i loro colleghi. “Ma quali colleghi, dottore’…quelli solo agli amici loro fanno lavorare”, accentuando la parola amici, certo che avrei capito.
Ora, posso dire con qualche certezza che almeno quei tre o quattro tassisti che ho conosciuto bene, sono brava gente. Non hanno nulla a che vedere con la camorra. Questo fa riflettere su quanto le logiche mafiose siano parte del tessuto culturale di questa città. A Napoli sei qualcuno se fai parte del Sistema. E se non ne fai parte è bene, comunque, che gli altri lo pensino. Con la loro intelligenza, quei tassisti napoletani ci ripagavano con l’unica moneta di scambio che conoscevano utile per noi che venivamo dal Nord: la protezione. “Stai sicura signori’ … se stai con me non ti succede niente!”.
Nascere a Napoli è una condanna.
Io stessa ho potuto constatare la voglia di scappare di molti giovani. Andare via, senza altro progetto se non quello di andare via. E quando accade che un giovane vada via, la gente gli si stringe attorno e senza domandare perché, dove, a fare cosa…gli urla: buono, fai buono. E in quest’urlo è celata tutta la disperazione di chi resta nel groviglio. Nascere a Napoli è una condanna. Direttamente per i Salvatore Giuliano condannati per dovere di nascita a non avere scelta, a sperare di sfuggire ancora ad agguati per la conquista del potere. Indirettamente per le Annalisa Durante violentate da un Sistema che non garantisce sicurezza neppure ai bambini e ai ragazzini. Indirettamente per i don Peppino Diana trucidati da un sistema che non accetta un confronto alla pari. Indirettamente per i parenti, gli amici, i conoscenti delle vittime di camorra costretti a rinnegare la verità, a farla morire nei ricordi, a stringersela al petto e perdonarsi facendo spallucce e dicendo “qui è così che vanno le cose”, o peggio sentirsi protagonisti, avere l’occasione di mostrarsi al Sistema in tutta la loro fedeltà e sperare così in quella protezione ambita che basta un nulla per perdere, perché la camorra non ha sentimenti.