Internet mi ha dato lavoro quando ancora moltissimi italiani si domandavano a cosa mai servisse avere un computer in ufficio. Per parecchi anni, tuttavia, è stato solo un canale professionale. Erano gli anni di “Un sito web? Seee… io devo ancora mettere a norma l’impianto elettrico!”, erano gli anni di “Ma che cos’è un’e-mail?”, erano gli anni di “Sì, ma mi mandi anche un fax!”.
Frequentavo l’università, scrivevo per le agenzie lunghi testi di brochure tecniche che i copy conclamati (scribacchini di mestiere, ma artisti nell’anima) si rifiutavano di scrivere perché comportava fatica e studio del settore merceologico e non solo creatività sintetica che si esprime in una headline. Poi arrivò mia figlia. Ero giovane, con la laurea che oscillava sulla testa come la spada di Damocle e il lavoro che iniziava a bussare alla mia porta anziché essere io a suonare i campanelli. Ero appena diventata socio tecnico in una cooperativa che aveva ottenuto, con un mio progetto/studio, uno dei primi finanziamenti che poi sarebbero evoluti nei più moderni fondi strutturali. Ma quel mostriciattolo così piccolo e morbido, così spudorato da giungere alla vita con gli occhi aperti, un ciuffo di capelli neri che le davano l’aspetto di un ananas e un urlo di guerra che non sembrava affatto un vagito ma un imperativo assolo che si estendeva fino a muovere le corde di quell’anima che scoprii capace di emozionarsi, aveva bisogno di me. E io l’amavo senza un motivo. Non perché fosse bella, buona, simpatica, gentile, intelligente, vivace… Non lo sapevo come sarebbe stata, l’amavo e basta. Mi dedicai a lei. Internet divenne il mio contatto con il lavoro, e per tre anni restai dietro le quinte di una realtà che cresceva a vista d’occhio. Quando ripresi i miei ritmi mi dedicai al trade marketing e alla promozione dei prodotti tipici facendo quelle lunghe marce su Bruxelles che hanno portato – con l’ausilio di uomini coraggiosi (poche donne) che difficilmente vengono citati per il loro contributo a un mercato nazionale che è fra i più stimati in Europa e in taluni casi nel Mondo – alla facile elaborazione odierna dei disciplinari di produzione. Erano gli anni di “Internet è un grande bluff”, erano gli anni di “Internet in Italia non riesce ad attecchire”, erano gli anni di “Nulla è come l’advertising istituzionale”. E fra una campagna e l’altra mi sono trovata catapultata – anche con la complicità di un caro amico - negli anni dei nick e delle list, dei forum e delle chat, di Mannheimer e di “Sei malato di Internet se ti alzi di notte per far pipì e ne approfitti per scaricare la posta!”. Ho trovato immediatamente affascinante questa realtà che, tuttavia, ho sempre tenuto distinta dalla vita reale, quella che, in fin dei conti, paga la bolletta finale del viaggio su questo terreno assai sdrucciolevole che è l’esistenza. Ed ora eccomi negli anni di “Ehi! Ho aperto un Blog, facci un salto, lascia qualche commento...:-)”, negli anni di “Oggi ho la diarrea, qualcuno ha una soluzione da consigliarmi?”. Ho mantenuto – non so dire se sia un pregio o un difetto – un certo entusiasmo per tutto ciò che è comunicazione innovativa, per tutto ciò che tende ad avvicinare lo scrittore al lettore, l’emittente al fruitore si leggerebbe nei testi universitari, e la curiosità, mia compagna di avventure, mi porta inevitabilmente a toccare con mano, a sperimentare ed esplorare, mantenendo, tuttavia, un distacco ammortizzante fra l’emozionalità e l’analisi. Ed è questo ammortizzatore che mi rende evidente la dissonanza abissale fra ciò che io intendo per rete e comunicazione in/di rete che costituiscono il futuro della letteratura, del giornalismo, dell’insegnamento, dello spettacolo (con l’eccezione del teatro che per sua natura è avulso da ogni tecnologia e può sopravvivere, deve sopravvivere, in un tessuto anche esclusivamente emozionale)… e la troppo comune e diffusa tendenza a vomitare banalità che nulla aggiungono a un apparato comunicativo già saturo e conteso. Vi è, troppo spesso, il timore di disperdere i propri lettori e si bara nella citazione delle fonti, alla faccia del creative commons, non si linka e non si riconosce, si mantiene una pacata enfasi nell’attribuzione di contenuti interessanti. Fra i Blog che frequento – per amicizia o perché mi ci sono imbattuta navigando – ve ne sono vari interessanti, ma ce n’è uno, quello di Diego D’Andrea che, a mio avviso, ha quell’umiltà indispensabile a chi sa cosa significa fare la rete senza timore di dispersione, allargando le vedute e ampliando lo spessore dei contenuti attraverso link e considerazioni personali. Perché fare la rete significa espandere ed espandersi, contribuire a far risorgere dalle proprie ceneri l’interazione intelligente, anche attraverso la gemmazione virtuale positiva che è diversa dal cannibalismo e dal copiaincolla.