In questi giorni, su molti blog, si è variamente discusso in merito alla Lettera al commentatore generico, postata da Babsi Jones. In molti, me compresa, si sono affacciati sul suo blog per la prima volta e hanno commentato quell’unico pezzo scritto, quell’insulto al vuoto, quell’odiosa verità spiattellata sullo schermo. Là a disposizione di tutti. Una lettera intelligente, piena di riflessioni che, tuttavia, sfuggono ai commentatori generici che si paraculano in risposte frettolose e genericamente accettabili, che dicono e non dicono, che spesso sottendono un pensiero latente che non ha le palle di venire fuori. O, peggio, si abbandonano a semplicismi e sillogismi difficili da seguire perché si perdono nel frastuono dei “secondo me…” malati di cammeismo che pretendono un riconoscimento immeritato perché nulla aggiungono alla risoluzione, o solo semplice esegesi, del pericolo della massificazione dei pensieri.
Ho letto Babsi Jones. Non solo
Ho letto Babsi Jones. Non tutto, non è possibile perché Babsi Jones scende giù come una valanga; perché i primi scritti su quel blog risalgono al 2004. Non tutto, non è possibile perché mi piace come scrive Babsi Jones e non ho voglia di scorrere velocemente fra quelle righe maledette che accendono dubbi e scavano crateri dentro di te. Cazzo! Ma dov’eravamo quando questa donna scriveva già? Quando aveva già chiara la sua interpretazione della rete, e pigiava tasti nell’inutile speranza di una risposta che avesse un senso, che allargasse il senso di quel sentire che non ce la fa a stare in una sola spiegazione.