GLI ALTRI CASSETTI

giovedì 15 febbraio 2007

Ho letto Babsi Jones.



In questi giorni, su molti blog, si è variamente discusso in merito alla Lettera al commentatore generico, postata da Babsi Jones. In molti, me compresa, si sono affacciati sul suo blog per la prima volta e hanno commentato quell’unico pezzo scritto, quell’insulto al vuoto, quell’odiosa verità spiattellata sullo schermo. Là a disposizione di tutti. Una lettera intelligente, piena di riflessioni che, tuttavia, sfuggono ai commentatori generici che si paraculano in risposte frettolose e genericamente accettabili, che dicono e non dicono, che spesso sottendono un pensiero latente che non ha le palle di venire fuori. O, peggio, si abbandonano a semplicismi e sillogismi difficili da seguire perché si perdono nel frastuono dei “secondo me…” malati di cammeismo che pretendono un riconoscimento immeritato perché nulla aggiungono alla risoluzione, o solo semplice esegesi, del pericolo della massificazione dei pensieri.

Ho letto Babsi Jones. Non solo la Lettera al commentatore generico. Quella non è Babsi Jones, è il suo avvilimento, il suo urlo di lutto per una morte constatata dopo una lunga agonia: è morta l’interazione intelligente. È morta. È morta, e non è una fenice perché non risorgerà dalle sue ceneri. Si estinguerà, invece, nel sapore amaro della generalizzazione, del copiaeincolla di emozioni, dell’io ci sono perché ti dico di esserci, dell’alienazione da tubo catodico, della sintassi sodomizzata da alieni che dovrebbero essere il distillato di migliaia di anni di evoluzione, delle interpunzioni che non ti lasciano respiro, delle parole abusate.

Ho letto Babsi Jones. Non tutto, non è possibile perché Babsi Jones scende giù come una valanga; perché i primi scritti su quel blog risalgono al 2004. Non tutto, non è possibile perché mi piace come scrive Babsi Jones e non ho voglia di scorrere velocemente fra quelle righe maledette che accendono dubbi e scavano crateri dentro di te. Cazzo! Ma dov’eravamo quando questa donna scriveva già? Quando aveva già chiara la sua interpretazione della rete, e pigiava tasti nell’inutile speranza di una risposta che avesse un senso, che allargasse il senso di quel sentire che non ce la fa a stare in una sola spiegazione.