GLI ALTRI CASSETTI

mercoledì 25 aprile 2007

I 5 libri.

Sarà mancanza di sonno, sarà che la pioggia che sento sbattere contro i vetri concilia la scrittura (di lavoro e non) sono giunta a tarda ora e così ne ho approfittato per “fare i compiti” assegnati da Diego.

È difficile scegliere cinque libri perché un libro suscita in ognuno emozioni differenti e quindi sarò letta attraverso esse e non attraverso le emozioni che hanno suscitato in me. Ed è difficile perché vanno pescati in uno spazio di tempo ampio. Perciò ho deciso di affidarmi al naso, come spiego di seguito.

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Lezioni americane
Italo Calvino
Cap. I, Leggerezza. Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire.
Oddio, cheddire di Calvino che non sia stato già detto? E, a scuola per giunta, dove se hai la fortuna di trovare un insegnante decente, ti viene proposto quantomeno Il cavaliere inesistente. E va bene, perché con quel libro, se hai un minimo di fiuto, ti innamori dello scrittore e allora vai alla ricerca di qualcosa di più e, se sei fortunato, arrivi alle Lezioni americane, ti gongoli un po’ nell’orgoglio di patria (sebbene non abbia mai potuto tenere le lezioni) e poi ti addentri nella lettura e scopri che quel Calvino che aveva scritto - non ricordo dove, e vado a memoria quindi chiedo venia per le imperfezioni, “È giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione. Ma la gravità della situazione richiede spirito analitico, senso della realtà, responsabilità per le conseguenze di ogni azione, di ogni parola e di ogni pensiero e quindi doti non estremiste per definizione”, innova continuamente se stesso, portandoti a un’innovazione continua. E lo fa attraverso la constatazione che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Indubbio maestro di stile e di tono.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché è il primo che mi è venuto in mente quando ho letto il post di Diego. Quindi ho dato spazio all’istinto, all’emozione, al naso. Di qui la decisione di scegliere anche gli altri libri col naso e non con il cervello, perché – lo dico spesso – il naso la sa molto più lunga del cervello, solo che ci piace sbandierare quest’ultimo. Peccato!
Io e il libro.
L’eterno dilemma fra scrittura universale e scrittura personale. È inevitabile, per me, ogni volta che riprendo questo libro riflettere su questa frase: Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.

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Domani nella battaglia pensa a me.
Javier Marìas

Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome.
Javier Marìas è uno dei miei scrittori preferiti. C’è un suo modo di dire, ricorrente nelle interviste, che riassume il gusto della lettura: “Il romanzo illumina le nostre zone d’ombra”. Ti prende per mano e ti porta non solo nell’universo dei personaggi, anche nel suo e a un certo punto avverti una fusione fra la storia, le riflessioni dello scrittore e le tue. Il suo stile è quello che più rispecchia il mio modo di intendere la lettura: l’interazione fra scrittore e lettore. Ti offre spunti di pensiero. Ti dona le sue interpretazioni lasciando spazio alla tua fantasia.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché il libro ha scelto me. Ero su un treno e il mio casuale compagno di viaggio dimenticò la sua copia di Repubblica, ripiegata sull’intervista a Javier Marìas, di cui avevo già letto Un cuore così bianco che mi era piaciuto parecchio. Ho letto l'intervista e mi sono ripromessa di comprare il libro. Non l’ho comprato subito. Dopo qualche settimana, un mese forse, in aereo, l’uomo seduto al mio fianco, vicino al finestrino, coi baffi e la cravatta buffa, leggeva sussurrando (non so se vi è mai capitato, è allucinante!) e reggeva con le grosse mani sudaticce Domani nella battaglia pensa a me.
Com’è? Gli chiesi, approfittando dell'ennesimo sbuffo annoiato.
Mah…sono solo all’inizio, ma non mi piace molto. Il baffo si storse in una smorfia di disgusto.
Ho letto “Un cuore così bianco” dello stesso autore, l’ho trovato particolarmente coinvolgente. La spinta a difendere Marìas è stata naturale.
Guardi, se vuole glielo regalo! Tanto è solo per passare un’ora e preferisco il mio giornale. Tirò fuori dalla borsa di cuoio una rivista di automobili e spinse verso di me il libro.
No, no. Ci mancherebbe altro. Il mio imbarazzo cresceva, pensai di essere stata villana nella mia arringa pro-Marìas.
Glielo regalo, le dico. Su non faccia tante storie. Il tono era quello di un padre che cerca di persuadere il figlio a studiare e aumentò il mio stato di soggezione.
Magari glielo pago… osai e il mio compagno di viaggio alzò la voce e mi disse che non li voleva i miei soldi, e che diamine! Guardi che non voglio mica portarla a letto, voglio solo regalarle un libro.
La situazione era talmente ridicola che feci l’unica cosa normale: una sonora risata, accettai il regalo e iniziai a leggere.
Io e il libro
Mi sono rivista in Victor, nel suo attraversare ogni attimo i cammini della vita; nel suo considerare l’amore una casualità che riconosci inevitabilmente; nel suo scrivere nel buio.
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La colazione dei campioni.
Kurt Vannegut
Questo è il racconto dell’incontro di due uomini bianchi, solitari, macilenti e abbastanza anziani, su un pianeta che andava rapidamente morendo.
Uno dei due era uno scrittore di fantascienza di nome Kilgore Trout. A quel tempo non era nessuno e immaginava che la propria vita fosse finita. Si sbagliava: in seguito a quell’incontro, divenne uno degli esseri umani più amati e rispettati della storia.
Colui col quale s’incontrò era un rivenditore d’auto, un concessionario della Pontiac di nome Dwayne Hoover. Dwayne Hoover era sul punto d’impazzire.

A costo di dare una definizione banale, per me Vannegut è semplicemente geniale. Mi piace come scrive, i ritmi che usa, la sua eccezionale ironia. Io adoro l’ironia. Non la comicità che riesco a sopportare solo a piccole dosi, né la comicità vestita di nuovo come le bacche del biancospino. E per spiegare perché quest’uomo mi stuzzica riporto le sue parole: Quando scrissi questo libro favoloso, vent’anni fa, ero ancora scosso dall’impatto della televisione sul vecchio mestiere di raccontare storie con carta e inchiostro. Mi sembrò una buona idea, per salvare il salvabile, cioè per trattenere quel pubblico che ancora restava a noi, poveri disgraziati dalle mani macchiate d’inchiostro, quella di rendere i nostri scritti più “visivi”. Così creai quest’opera che è una delizia sia per gli occhi che per l’intelletto. C’è così, in questo libro, qualcosa anche per gli analfabeti, che si dice siano negli Stati Uniti qualcosa come quaranta milioni. Quand’essi guarderanno il mio disegno di un paio di mutande, ad esempio, non avranno problemi nel riconoscerle come mutande e nel pensare tra sé e sé “mutande”.
Cheddire di più? Vonnegut sa fare satira, senza sterili polemiche ma con quella sua ambiguità fra l’essere un writer e un copywriter
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché l’ho rubato. Te lo confesso, Roberta (so che leggi in silenzio questo Blog), l’ho preso dalla libreria del tuo bagno (lunga storia che racconterò in un altro momento). È stato il giorno in cui mi sono lavata le mani con il dentifricio. Cosa ne potevo sapere che quel flacone del tutto simile a un flacone per il detergente mani/viso fosse un dentifricio liquido? Perché poi ti sei fatta fregare dalla pubblicità del due in uno? Prima ti lavi i denti e poi usi il collutorio, se vuoi. Due in uno è una cavolata. Ritorniamo al libro e al furto che sto confessando pubblicamente. Ho iniziato a leggerlo e sin dalle prime pagine di presentazione me ne sono invaghita. La presentazione è fuori dal comune, ma non è bella perché è fuori dal comune, è bella perché è bella, perché l’ironia comincia da lì, dalla presa per il culo di se stesso. Ah! L’arte sottile dell’autoironia. Potrei passare sopra molti difetti se affrontati con autoironia, e sana presa in giro di se stessi. Quanto mi spiace quando mi prendo troppo sul serio!.
Insomma Roberta, me lo sono messa in borsa. Pensavo di restituirlo, giuro. Poi l’ho sottolineato e glossato. Era mio. Sarebbe quantomeno stato apprezzabile che te lo confidassi. Lo faccio adesso. Lo confesso: non intendo restituirtelo.
Io e il libro.
È importante – di tanto in tanto – che ci venga rammentata l’importanza di buttarsi alle spalle cianfrusaglie del passato e provare una lettura diversa della vita e della storia. Questo libro l’ha fatto.
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Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino.
L’ingegnere, il sottotenente degli alpini, il cultore della lingua…lo scrittore. È riuscito a farmi leggere un giallo, genere che non prediligo, delineando un commissario sornione che si aggira in una Roma dai colori paesani, fra benpensanti e poco di buono che si confondono fra di loro. Uno scrittore conosciuto in giovanissima età, in quarta elementare quando, in un tema sulla guerra, citai Niente e così sia di Oriana Fallaci e la maestra, donna eccezionale e votata all’insegnamento, mi disse che se proprio dovevo fare letture non adatte alla mia età e letture di guerra, tanto valeva leggere Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda. Il giorno dopo me lo portò e quello successivo iniziai a leggerlo.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché mi fa pensare a mio padre esattamente come mi piace pensarlo: immerso nella lettura di un giallo, sdraiato sul letto oppure sull’amaca in campagna, sotto al pino. Sono diversi i gialli che piacciono a lui, ma ha letto con gusto Il Pasticciaccio e ricordo un piacevole pomeriggio di primavera in cui ne abbiamo parlato. Non è sovente che parli con mio padre giacché l’arte di discutere coi propri genitori si coltiva in un tempo che non mi è stato mai concesso. Ma quel pomeriggio di primavera …
Io e il libro.
Non c’e stata immedesimazione con un personaggio, piuttosto con l’ambiente, con quello scorrere dei giorni, con quella ricerca di una verità che è diversa a seconda dell’angolo da cui guardi.

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Paradiso Perduto
Henry Miller
Fu Anaïs Nin che mi presentò a Conrad Moricand. Lo portò nel mio studio alla Villa Seurat un giorno d’autunno del 1936. La mia prima impressione non fu in complesso favorevole. L’uomo sembrava tetro, pedante, egocentrico, troppo sicuro di sé. Si portava appresso una sorta di alone fatalistico.
Era il tardo pomeriggio, quando arrivò, e dopo aver fatto quattro chiacchiere andammo a mangiare in un piccolo ristorante della avenue d’Orléans. Da come esaminò il menu capii subito che era un tipo meticoloso. Chiacchierò senza interruzione per tutto il pasto, pur continuando a mangiare di gusto. Ma era una conversazione, la sua, di quelle che non si fanno a tavola, di quelle che rovinano la digestione.
Aveva un odore che non potei fare a meno di notare. Era un misto di lozione per barba, cenere bagnata e tabac gris, con l’ombra di un profumo indefinibile, elegante.
Perché ho scelto di parlare di questo libro.
Perché in questo periodo di grande invadenza da parte della chiesa e dei suoi vertici, poco attenti alle anime e molto alla politica, mi piace ribadire questo passaggio: A me l’uomo in potenza non interessa. Mi interessa ciò che un uomo attua, o realizza, del suo essere potenziale. E cos’è un uomo in potenza, dopo tutto? Non è forse la somma di tutto ciò che è umano? Divino, in altre parole? Tu pensi che io stia cercando Dio. Non è vero. Dio è. Il mondo è. L’uomo è. Noi siamo. La piena realtà, questo è Dio: e l’uomo, e il mondo, e tutto ciò che è, compreso l’innominabile. Io sono per la realtà. Sempre di più. Sono un fanatico della realtà, se vuoi.
Io e il libro.
Il rapporto con questo libro è profondo per ciò che mi ha ispirato in un momento molto particolare della mia vita, di cui non ho voglia di parlare. È profondo. Tutto qui.