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lunedì 12 febbraio 2007

Quando volavo.




Se la lucidità e la razionalità dell’età adulta non me lo impedissero, potrei, adesso, raccontarvi di quando da bambina volavo.
Saprei descrivere esattamente le dinamiche e le sensazioni. Saprei raccontare della discesa che da vicolo San Matteo in quadro continua fino a via Gramsci, che fungeva da pista di decollo. Non era sempre possibile. Bisognava attendere le giornate di vento e non erano affatto frequenti. Ogni mattina, mi alzavo e controllavo se ci fosse una brezza promettente. A volte attendevo per settimane e perfino mesi. Alla fine, il vento arrivava, andavo alla discesa e mi fermavo su in cima, allargavo le braccia e correvo veloce, sempre più veloce, fino a sollevarmi. Dapprima con fatica perché avvertivo improvvisamente il peso del mio corpo, una fitta di dolore che mi attraversava e irrigidiva. Non fu né facile né immediato imparare a sopportare il dolore e più volte caddi, fino a quando capii che bisognava ignorarlo. I primi voli furono timidi e inesperti. Tentai movimenti simili a quelli delle ali d’uccello, ma non era così che funzionava. Non era possibile contrastare la forza del vento, bisognava assecondarlo e mantenere le braccia aperte e semi rigide. Imparai a farmi trasportare e il vento mi prese con sé. Accarezzava le mie guance e premeva contro le braccia aperte.
Mentre volavo e guardavo il paese sotto di me diventare piccolo e lontano, mi liberavo di ogni peso, non solo di quello corporeo. Tutto, tranne ciò che mi sentivo di essere veramente e di volere con me, veniva attratto giù dalla forza di gravità.
Non so con esattezza quando ho smesso di volare. Non so neppure quando ho smesso di considerarlo un ricordo e cominciato a parlarne come di una fantasia. So, però, che nei momenti in cui la razionalità mi abbandona, torna ad essere il ricordo più bello.