GLI ALTRI CASSETTI

mercoledì 31 ottobre 2007

La parola al sesso forte.

Proprio non mi riesce di intascare indifferentemente la notizia: un’altra donna violentata e massacrata di botte; quanto fa? cinque, dieci, venti? E ci sarà pure un corrispondente numero da giocare al lotto, secondo me. Non sono ferrata in materia, ma volete che non ci sia? Suvvia!
Sì, torno a parlare di donne e ci tornerò ancora e ancora, fino a quando avrò un filo di voce e una tendinite fulminante non m’impedirà di schiacciare lettere sulla tastiera. Io provo rabbia. E provo vergogna per questi uomini che fanno della sicurezza dei cittadini un altro baluardo politico. Prima era l’Islam, ora sono i rumeni. Qui non si tratta di provenienza geografica, ma di uomini e donne che non si riconoscono ancora la medesima qualità di persone. E allora lo domando agli uomini: cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per farvi entrare nelle teste che non siamo solo un buco con un po’ di curve attorno? Mi pare che non abbia funzionato il sistema di ammantarci con veli e burka, dobbiamo forse rispolverare le cinture di castità e buttare le chiavi nell’oceano? Che cosa dobbiamo fare? Iniziare a fare a botte da adolescenti sì da temprare le ossa per una futura lotta? Armarci e sparare in fronte al primo che ci fa un complimento? Autoacidificarci in modo che questo corpo non susciti più istinti se non di disgusto? O forse no: forse potremmo cavalcare la strada amicale e girare nude, magari con un cartello che dica: accomodatevi! Oramai la strada è già imboccata, basta solo che ci diciate che può andar bene così.

Oggi è uscito il libro di Loredana Lipperini: Ancora dalla parte delle bambine. Lo attendevo da un po'. L’ho comprato qualche ora fa. Posso solo segnalarvi, per ora, che le tematiche sono interessanti e, talune, incentrate sulla pubblicità che è un campo che mi appartiene, con riferimenti ad Anna Maria Testa (Liscia, gasata o Ferrarelle? Di Sangemini ce n’è una sola. Tanto per fare qualche esempio di campagne pubblicitarie, e uno dei più bei libri sulla pubblicità: La parola immaginata).

Donne, la dobbiamo smettere di attenderci che “loro” capiscano: basta con questa femminilità che ci hanno cucito addosso. Basta vi prego, ché qui si continua a morire da stronze.

L'anima dei morti.

Rispetto alla festa di halloween (che personalmente trovo divertente), la cosa che più mi spiace è il constatare, ogni anno, la mancanza di conoscenza delle tradizioni italiane, e, ogni anno m’incazzo un po’ di più con Garibaldi e il suo obbedisco della malora.

In realtà, vi sono paesi del Sud, dove "la notte dei morti” è sempre stata festeggiata in maniera piuttosto interessante. A Sannicandro Garganico, per esempio, la notte del 31 ottobre, i bambini, mascherati o no, si riunivano in gruppi e andavano per case a chiedere “l’anima dei morti”. Il ritornello non era “dolcetto o scherzetto”, bensì “damm l’an’ma ‘i mort ca s’ no t’ sfasc la porta” [traduzione doverosa: dammi un regalino - metaforicamente indicato come “anima dei morti”- altrimenti butto giù la porta]. Il “regalino” ha avuto, ovviamente, la sua evoluzione. In principio erano dolci fatti in casa, essenzialmente peperati che si iniziava già a preparare dalla fine di ottobre e che avrebbero costituito il dolce natalizio, ché i panettoni manco si sapeva cosa fossero, ma anche taralli dolci da pocciare nel vino, melacotogne, melagrane, marmellate, castagne, ceci cotti nella cenere, collane di sorbi essiccati. Inoltre, il mattino del 1 novembre, i bambini trovavano “la calza” piena di dolcetti. Non era la befana a portarla a cavallo di una scopa, ma erano i propri morti che dall’aldilà pensavano ai loro bambini. Questo creava un legame fra vivi e morti che andava oltre l’orrore, e si attendeva quella notte in cui le anime si sarebbero congiunte in una sorta di prova generale del Giudizio Universale.

lunedì 29 ottobre 2007

Paradossi.

Lina si alza tutte le mattine alle sei, prepara la colazione per i figli e il marito, esce di casa e va a riordinare le case altrui. Case più belle della sua, più grandi, meglio arredate. Case di gente che lavora. Custodisce le chiavi degli appartamenti in una borsetta di vernice rossa che le hanno regalato, il Natale scorso, le Signore del condominio di via Giacomo Leopardi. Arriva discreta e silenziosa nelle loro belle case e si reca dritto al ripostiglio dei detersivi. Compie gesti ripetuti, di routinaria memoria. La signora Matilde è attenta soprattutto alla pulizia del bagno e della cucina; la signora Marianna ha a cuore che il pavimento sia sempre lustro; la signora Giuliana si è raccomandata che la cameretta del bambino sia rispolverata ogni giorno ché il piccolo soffre di allergia; la signora Carmela darà una festa sabato sera e vuole che la sala sia a posto; la signora Selène, col suo accento straniero le ha domandato di avere cura delle sue piante…
Un’ora per ogni appartamento, circa quattro-cinque ore al giorno, non di più ché il pomeriggio deve accompagnare la piccola in palestra e il grande a ripetizione di latino, per un guadagno di circa cinquanta euro che moltiplicato per venti giorni fa mille euro in nero. A cinquant’anni e con una vita che lei ritiene banale alle spalle, si sente inadeguata per quel mondo in cui è solo una serva. L’altro giorno ha sentito una notizia che l’ha fatta sorridere: la cameriera del sultano del Brunei, guadagna sette milioni di euro l’anno. Per rendersi conto del valore del denaro, Lina ha ancora bisogno di fare mentalmente un rapido passaggio alla lira: sette per due quattordici miliardi. Poco meno, lo sa bene, ma per lei non fa differenza: l’entità del guadagno va oltre le sue volontà di far di conto; la notizia non è alla sua portata. È stata una sorpresa maggiore, per lei, scoprire che la signora Giuliana che fa l’impiegata guadagna meno di lei, e ci paga pure le tasse!

domenica 28 ottobre 2007

Perché Maddi piange?

Lo scrittore uscì di casa con la Moleskine in mano, ben visibile affinché tutti potessero intuire, al primo sguardo, le sue caratteristiche di osservatore arguto, pronto a immortalare con le sue parole intime e feroci la realtà. Andò al parco e scelse accuratamente una panchina che gli consentisse una prospettiva allargata sul mondo circostante. Accese una sigaretta e aspirò profondamente il fumo che miscelandosi con l’aria semi-pulita si depositò nei polmoni creando quella catarrosa necessità di sputare parole dalle proprie viscere.
Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto, gli offrì lo spunto creativo di quella tiepida giornata di primavera. Lo scrittore lo osservava mentre compiva il quarto giro di pista. Annotò tutto, perfino il colore degli occhi azzurro-verde che spiccavano sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Le parole si disperdevano in righe poco uniformi: qualcuna andava verso l’alto, qualcuna verso il basso. Forse aveva compiuto un errore imperdonabile per uno scrittore del livello quale egli voleva proporsi al mondo intero: aveva scelto una Moleskine senza righe e senza quadretti. Si era domandato più volte quale fra i taccuini-musa fosse adatto alla sua arte e aveva optato per quello a fogli bianchi. La mia scrittura – si era detto fra sé e sé – è come la pennellata di un pittore. Io sono il Van Gogh della scrittura, mi merito una Moleskine da schizzi. Ora che le righe assumevano un aspetto anarchico non era più convinto della sua scelta. Il colore azzurro-verde degli occhi del giovane, intersecava l’appendice musicale in un tormento di alti e bassi che non dava spazio alla sua sintassi accurata. Avrebbe voluto avere fra le mani il taccuino di Hemingway o di Chatwin, avrebbe voluto accarezzare i loro appunti: quale avranno scelto? Il foglio bianco?, i quadretti?, le righe?
Due adolescenti, ridacchiavano dietro di lui. Non le aveva sentite arrivare, troppo preso dai suoi pensieri, e un po’ lo infastidì quella violazione al suo spazio d’artista, quella intromissione coatta nella delineazione di un’ispirazione profondamente introspettiva da non aver spazio per due personaggi fuori programma. Era costretto ad ascoltare il loro chiacchiericcio inutile, a scoprire che avevano bigiato la scuola per incontrare Greg. Chi è Greg? Allo scrittore non importava affatto, lui aveva già il suo personaggio e queste due ochette con la maglietta scollata sotto ai giubbottini colorati lo stavano importunando. Il continuo drindinnare dei loro cellulari lo irritava. L’alto e il basso delle sue righe pure. Cercò nello zaino il vecchio quaderno di appunti, un banalissimo quaderno con il volto di quello che era stato il suo calciatore preferito, sulla copertina. Un quaderno da dilettante, da appassionato della scrittura, non un vero taccuino da scrittore come quello che, ora, era nelle sue mani e avrebbe suggellato il suo successo. Scorse velocemente le pagine, senza leggere ché quelle erano emozioni d’altri tempi, senza struttura e senza corpo. Gli interessava trovare una pagina non scritta, una pagina da posizionare sotto ai fogli bianchi del suo futuro da grande scrittore, ‘sì da avere in trasparenza linee rette orizzontali che non osava, non più, chiamare fogli a righe. Trovò tre pagine bianche e si rallegrò che quel suo passato da intimo scribacchino avesse concesso una chance al suo futuro.
Greg arrivò, fasciato in jeans attillati a vita bassa che lasciavano intravedere l’elastico di un intimo alla moda. Rispondeva a voce alta al cellulare con display ad alta definizione e si atteggiava come un uomo fatto contrastato dalla peluria ancora incerta che copriva il suo volto familiare per la sua indistinta generalizzazione fisica che rende gli adolescenti tutti, inevitabilmente, somiglianti. La ragazza coi capelli lunghi gli andò incontro e gli stampò un bacio sulla guancia. Salutandola, Greg le diede un’identità: Gio’. L’altra aveva i capelli più corti e sembrava meno loquace, scompariva in un corpo esageratamente magro e sotto a un cerchio nero naturale che infossava i suoi occhi forse neri o solo spenti. Greg e Gio’ non la chiamarono mai per nome, lasciandola in un anonimato temporaneo, sotto un filo di trucco che non riusciva a velare un pallore innaturale.
Il giovane in calzoncini corti e canottiera sudata, giunse al termine del quarto giro di pista. I suoi occhi azzurro-verde incrociarono quelli dello scrittore che si sentì nudo di fronte al suo personaggio, sconfitto da una passione descrittiva quasi morbosa. Si fermò davanti alla panchina e avanzò verso di lui. Lo scrittore si sentì investito da un’emozione forte: il suo personaggio stava prendendo vita, si stava avvicinando a lui, presto le loro anime si sarebbero congiunte in un amplesso emozionante. Strinse forte la sua Moleskine, la sua musa, il suo futuro. Il petto sembrava una piazza di paese in festa. Il giovane oltrepassò la panchina e raggiunse i tre intrusi, sotto al tiglio, proprio alle spalle dello scrittore. Salutò Greg, Gio’ e…Maddi. Maddi si alzò per la prima volta, abbracciò il giovane coi calzoncini corti e la canottiera sudata e si abbandonò ad un pianto disperato in cui trovò anche lui un’identità: Leo.

Lo scrittore strappò la pagina al vecchio quaderno, la inserì sotto al secondo foglio della Moleskine e riordinò i suoi appunti: Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto è giunto al quarto giro di pista. Il colore degli occhi azzurro-verde spicca sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Ora le righe erano perfettamente allineate.
Con la sua Moleskine sotto al braccio, accese un’altra sigaretta. Dietro di lui, il suo personaggio e i tre intrusi si stavano allontanando. L’emozione per quella prima pennellata lo riempiva totalmente. Abbandonò il parco e andò in libreria. Fra le novità spiccava il libro di uno scrittore che non gli piaceva per nulla: giovanilista e subdolo. Rigirò fra le mani una delle poche copie rimaste, altre erano in cassa, fra le mani di Gio’ e Maddi, che lo scrittore non riconobbe. Nella prima pagina lesse: Un giorno attraversi un frammento della tua città. Visto e rivisto, eppure capace di stupirti in qualche suo piccolo, nascosto particolare. Lo attraversi e non stai cercando niente. Nessuna novità. Sei lì, come lo sei stato tante e tante volte in passato. Sei lì e vedi qualcuno. Di cui non sai nulla. Nemmeno ora che scrivi e che è passato del tempo. Qualcuno che ti suggerisce, senza nemmeno saperlo, una storia. Una storia intera che praticamente si è scritta da sola.
Lo scrittore lasciò la copia ad altri avventori meno arguti di lui. Diede un’occhiata alla sua Moleskine, e si contorse in un’espressione di angoscia che esprimeva tutto il suo rammarico per una categoria di lettori incapaci di comprendere il valore della letteratura, della cultura, della scrittura. Quell’espositore all’ingresso, con le poche copie rimaste di un libro senza altro spessore culturale che l’osservazione dei propri lettori gli incuteva più timore di ogni imbarbarimento umano. Quel libro stava occupando il posto che, per diritto letterario, spetta a lui. Lui che adesso ha una Moleskine e un personaggio. Che scrive per sé e non per un lettore specifico. Che osserva con l’arguzia dell’intellettuale e non quale selvaggio assorbente della vita. Le righe perfettamente allineate sul secondo foglio della sua Moleskine sono un’aspirazione e una condanna, l’esempio di una qualità di scrittura che a nessuno più interessa indagare. Il petto gli si strazia in una morsa di dolore e dà un calcio all’espositore. Denuncia al mondo racchiuso nella libreria di paese la sua disapprovazione, il suo tormento, il suo struggimento.
Maddi, magrissima, gli si avvicina e gli domanda cos’abbia. Lo scrittore tace, non ha parole per lei, non la conosce. Nella foga la Moleskine è caduta e si è aperta sul secondo foglio con le righe perfettamente allineate e una bella scrittura chiara. Maddi legge: Il giovane, coi calzoncini corti, la canottiera zuppa di sudore e l’appendice musicale penzolante dalla tasca posteriore, collegata ai timpani come protesi permanente senza timore di rigetto è giunto al quarto giro di pista. Il colore degli occhi azzurro-verde spicca sulla pelle già abbronzata in un aprile tiepido ma non ancora caldo.
Legge, ma non riconosce quel momento che pure le è appartenuto, non trova il perché di quel pianto disperato rimasto nel parco. Richiude la Moleskine, la porge allo scrittore e va via con il suo nuovo libro sotto al braccio.

sabato 27 ottobre 2007

Brindisi

I bicchieri alzati e i sorrisi accesi su facce rilassate di un’estate appena iniziata. Gli aghi del grosso pino, testimone di stagioni vissute nel silenzio dell’incomprensione, caduti e ingialliti sul cortile di ghiaia sparsa sulla vecchia colata di cemento sollevato dalle radici degli alberi, bucato dalla forza inaspettata di un esile filo d’erba. Voci adulte che si sovrappongono alle medesime allegre e infantili degli anni passati. Guardo indietro, verso il cortile che si affaccia sulle terre arate con le zolle indurite dal calore e dall’arsura. È di là che arriva il vento di mare e io l’aspetto perché adesso ho bisogno di tornare a volare. Le voci si fanno confusione, la confusione angoscia, l’angoscia rabbia, la rabbia fuoco, il fuoco vendetta, la vendetta parole, le parole silenzi, i silenzi pensieri.

Parole.

La madonna di gesso è sbiadita al sole, il suo manto celeste è diventato grigio. È sporca quella madonna, come è sporca la sua presenza muta.
Una margherita timida. Una sola, al posto di quell’enorme cespuglio che strappai con il dolore e con la zappa, entrambi arrugginiti.
Rose scarlatte e puttane che continuano a fiorire. Non è stata sufficiente la mia ferocia. Avrei dovuto scavare in fondo, estirpare le radici.
Silenzio.
Ha accolto il mio grido, il vento, e lo sento arrivare con l’abbaiare dei cani e le voci di brindisi lontani. Il giorno è di festa e di allegria. Il vino è rosato e leggermente frizzantino, con un retrogusto che sa di frutta e di bouquet. Qualche goccia cade dai bicchieri e si versa sulla tovaglia di sfilato siciliano. Ti guardo madre e mi aspetto un tuo abbraccio. Ti osservo padre e mi aspetto che tu interrompa il brindisi.
Parole.
La terra sottratta alla palude, racconta di acque nere e stagnanti ripulite dall’acqua fresca e lievemente salmastra. Terra rossa d’argilla e di sangue.
La stanza rosa, la mia preferita, piange lacrime di pioggia che filtrano dal tetto l’odore di stantio.
I gechi si scaldano sulle pietre roventi della casa. Inquieti osservatori. Silenziose macchie di giallo e nero.
Pensieri.
Sto per rompere il tuo silenzio codardo madre amatissima e innalzata nella mia testa oltre le sottane della vita. Fra qualche attimo irromperò nella tua cristalliera di fragilità e frantumerò anche i pochi cocci rimasti del tuo sogno. Ti donerò qualche goccia del sudore dei miei anni e qualcuna delle lacrime versate nella solitudine della mia esistenza dispersa sotto ai lembi del tappeto di una vita che non mi è mai appartenuta, di una vergogna che mi hai lasciato vivere da sola. Hai il mio perdono madre, e la mia rassegnata comprensione. Non ti devo il mio silenzio.
Sto per massacrare il tuo orgoglio padre che avresti dovuto proteggermi dai mali della terra quando eri ancora impantanato nella tua vendetta contro il mondo a cercare di capire quale cazzo di vita fosse preferibile fra le tante che vivevi e quella che mi apparteneva nelle quale, talvolta, ti rifugiavi, ma che ti pesava in spalla come una zavorra. Ti donerò un po’ del mio coraggio e della mia forza che è una spada forgiata nel fuoco del tuo stesso sangue.
Brindisi.
Brindo a te padre di mio padre che ti dicevi due volte padre mio, signore di questo luogo, padrone e carceriere, cantastorie e imbroglione. Possa la tua anima vagare in eterno raminga, senza paradiso o limbo, e senza inferno; possa tu sentire tutte le notti l’urlo del silenzio, le carni che si straziano, il dolore in fondo all’anima, la vergogna nelle mani, il peso delle ossa, il mugolio di un ansimare che ti dà angoscia e pace nel segno di una fine, il fruscio del letto di lino bianco e spine, l’odore del tuo sudore che diventava il mio, l’alito di menta e di tabacco, i pomeriggi afosi di vite non vissute, il tatuaggio indelebile del tuo essere e divenire, il sangue mio versato nel tuo sudario, senza altro onore che il tuo peso sopra al mio. Brindo alla tua eternità.
Silenzio.

La metafora dell'assorbente igienico femminile.

Questo post è chiuso ai commenti per due motivi: il primo è che è una sovrafetazione di “Il libro che lava più bianco”; il secondo è che ho la certezza che pochi ne coglieranno la metafora. Chi dovesse coglierla può liberamente esprimerla nel post precedente.

Credo che non vi sia un prodotto diversificato quanto l’assorbente igienico femminile e trovo che la sua storia (qui raccontata senza pretese) sia fra le più intelligenti, e che porti a riflettere sui meccanismi motivazionali (preesistenti e indotti) della diffusione di un prodotto.

Dunque...

L’avete presente l’assorbente igienico femminile? Una pezza di lino per le nostre nonne era sufficiente. Doveva essere bianca perché candeggiabile e lavabile a temperature elevate che ne consentissero la “sterilizzazione” con acqua bollente. Poi qualcuno ha pensato ad altro: sono nati i primi assorbenti igienici monouso, di enorme spessore e consistenti in un film di garza che conteneva ovatta (cotone). Costava di più di una pezza di lino, in genere ricavata da lenzuola non più utilizzabili, ma garantiva una maggiore igiene ed evitava lavaggi difficoltosi e stomachevoli giacché le macchie ematiche non sono fra le più facili né dal punto di vista della detersione né dal punto di vista dell’approccio psicologico.


C’era un solo produttore, che chiameremo Signor A, per tante donne: i costi di produzione potevano essere distribuiti in maniera tale da consentire un buon mark up anche a prezzi di vendita contenuti. Ma poi il Signor B ha pensato: Perché non posso farlo anch’io? Si è informato, ha compilato un business plain e ha valutato i vantaggi. Ha investito e ha iniziato a produrre assorbenti igienici uguali al Signor A. Che delusione scoprire che le sue vendite erano irrisorie rispetto a quelle del Signor A.

Ma come? – si diceva fra sé e sé il Signor BIl prodotto è buono quanto quell’altro, perché io non vendo e lui sì? Un amico, tanto per fare un po’ di conversazione, gli disse, un giorno: Tutte quelle donne sono affezionate al Signor A, lui ha loro risolto un problema, si è posto come necessario. Tu per vendere devi abbassare il prezzo. Il Signor B accettò il consiglio e mise sul mercato assorbenti identici a quelli del Signor A a un prezzo più competitivo. Il risultato fu più che soddisfacente: le donne si divisero a metà, fra coloro che rimasero affezionate al Signor A e coloro che lo tradirono a vantaggio del Signor B.
Il Signor A e il Signor B guadagnavano veramente bene. Era ovvio che il loro successo facesse gola anche al Signor C, che iniziò a produrre, anche lui, assorbenti igienici tale e quale a quelli del Signor A e del Signor B. Il Signor C pensava di essere furbo e quindi abbassò ulteriormente il prezzo di vendita, ma, a fine anno, si accorse che il suo mark up era irrisorio. È vero che si era ritagliato un terzo del mercato, ma abbassando il prezzo era arrivato a un bilancio quasi alla pari. Non poteva funzionare. Allora pensò a un modo per battere la concorrenza. L’idea gli venne all’improvviso, ispirata da una delle solite lagne da dismenorrea della moglie: Eccheppalle! Proprio oggi mi dovevano arrivare le mestruazioni? Ho appena comprato la gonna nuova, stretta e con lo spacco e non posso metterla perché altrimenti mi si vede la sagoma di questo enorme pannolone!

Come ho fatto a non pensarci prima? – urlò raggiante il Signor C lasciando la moglie a scegliere un abito più adatto. Corse in ufficio e chiamò i suoi collaboratori: Dobbiamo realizzare un assorbente più piccolo, anatomico, che non dia fastidio! Le donne devono poter indossare quello che vogliono quando vogliono.
L’esperimento riuscì. Quando le donne andavano al negozio avevano tre brand fra cui scegliere e uno rassicurava sulla comodità e sulla “femminilità”. Il Signor C si guadagnò un bel picco nelle vendite. Il Signor A e il Signor B allora s’inventarono l’ultrapiatto e il notturno. Era una guerra fra tre produttori che, alla fin fine, si spartivano un mercato molto vasto e molto redditizio. Così redditizio da far gola ai Signori D, E, F, G, H, I.
Così, dalla pezza di lino si è arrivati, a suon di differenziazione, a una miriade di tipologie di assorbenti igienici femminili. Le donne erano confuse: troppa scelta, che fare? Si affidarono all’affettività e restarono legate agli assorbenti di A, di B e di C. Fino a quando al Signor J, venne in mente di fare pubblicità. Il Signor J si era inventato l’assorbente più innovativo di tutti, posto che un assorbente possa essere innovativo giacché la sua funzione è sempre e inevitabilmente la stessa: un assorbente che ti consentiva di fare proprio tutto, perfino lanciarti con un paracadute. Quante di quelle donne si lanciavano quotidianamente con un paracadute? Ma il bello è che il Signor J lo disse in televisione, alla radio, sui giornali. Ovunque le donne andassero si trovavano di fronte il brand dell’assorbente del Signor J al quale va riconosciuto, fra l’altro, il merito di aver abbattuto il tabù della dismenorrea, fino ad allora taciuta e sussurrata con nomi fantasiosi solo fra donne.
Successe che anche K, S, W, H e perfino A, B e C iniziarono a fare pubblicità. Assunsero ricercatori ed esperti, ma se da un lato la ricerca cresceva, d'altro lato si immettevano sul mercato assorbenti sempre meno differenziati (ché erano state esaurite le possibilità), fino a quando non venne in mente, al Signor R di creare un bisogno indotto trasversale all’assorbente. Le donne che costituivano il mercato oramai era esaurite, spezzettate fra i tanti produttori. Questo il Signor R oramai lo sapeva bene e sapeva che quel mercato aveva un limite: la periodicità. Non poteva mutare le leggi naturali e biologiche, ma sicuramente c'era un modo per abbattere quella criticità: L’assorbente deve entrare a far parte della vita quotidiana della donna, ohibò! E così nacque il salvaslip. Un sottoprodotto che aveva due scopi fondamentali (entrambi commerciali): il timing e quindi eludere la criticità di vendita legata alla periodicità; la concorrenza e quindi evitare di creare un prodotto che cannibalizzasse quello proprio (leader e portante) e si creasse un mercato trasversale e derivato. Le donne – convinte anche da una spinta igienica massificata che ha finito con l’ammazzare la flora batterica e aumentare i tumori uterini, ma questa è un’altra storia come altra storia è la confusione fra femminismo e dismenorrea – si sono sentite considerate nella loro intimità e hanno iniziato ad acquistare i salvaslip, poi i contenitori salva-privacy, gli accessori eccetera. Ma la Signora U voleva andare in piscina anche “in quei giorni” e allora il marito le ha inventato il tampone…e la storia continua.

Contestualmente si andava proclamando anche un altro stendardo: il no logo, veicolato attraverso i discount. I Signori A, B, C, D, ….Z, attenti conoscitori dei loro segmenti di mercato, vi si adeguarono immediatamente, canalizzando in quegli ambiti i loro assorbenti senza brand e così conquistando anche i segmenti più ostili e difficili (quelle nicchie che avevano mantenuto un minimo di decoro, che si manifestava tuttavia non tanto nell’utilizzo delle vecchie pezze di lino bensì nella critica verso le attività commerciali, verso il marketing e verso la pubblicità, nell’ottica non tanto di una presa di posizione attiva ma di difendere lancia in resta una propria incapacità – definita per ovvi motivi impossibilità – di scelta).
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venerdì 26 ottobre 2007

Il libro che lava più bianco.


È da un po’ che mi riprometto di segnalare Linguaggi e Parole, lo faccio oggi, cogliendo uno spunto dal post di Ribelle: Una riflessione sul mondo letterario odierno. Un pezzo limpido, equilibrato, che dice senza aggressività e con un pacato invito rivolto agli scrittori esordienti alla prudenza. Però non voglio parlare di letteratura, l’ha già fatto lui. Non voglio parlare neppure di scrittura e di editoria: l’ho già fatto varie volte. Oggi voglio affrontare questo discorso in una chiave più diretta: la pubblicità, rompendo una promessa fatta a me stessa sin dall'inizio.

Ogni volta che si parla di libri e di editoria, ricucito con diversa sintassi ma uguali contenuti, tanto da apparire come il restyling di un copiaincolla senza copyright a disposizione di tutti, viene lanciato l’allarme:

Il libro è diventato un prodotto del marketing e della pubblicità!

Cari/e casalinghe di Voghera, quand’è che il libro non è stato un prodotto? Quand’è che non ha avuto un costo? Una volta che il romanzo ha oltrepassato la frontiera dell’arte creativa per buttarsi nel mercato, in cosa esattamente differisce dall’assorbente igienico?

Il libro è un prodotto.

Questo non lo dissacra. Dissacrante, semmai, per la cultura tanto invocata, è l’ostinazione a voler varcare la frontiera a ogni costo. Dissacrante è la guerra che nella blogosfera gli aspiranti scrittori si fanno, cercando notorietà e allo stesso tempo puntando il dito quando qualcuno la ottiene. Dissacrante non è il paragone con l’assorbente igienico, ma lo scoprire che quello (l’assorbente) è molto più evoluto e differenziato del libro.

martedì 23 ottobre 2007

A chi interessa più scoprire se ciò che si scrive è vero?

Ho letto questo.
Penso questo:
C’è differenza fra sincerità e onestà. Una linea sottile sottile che diventa trincea di sacchi di sabbia e mattoni. È vero, vi è uno strano modo di recensire Sappiano le mie parole di sangue. Anzi due: uno coinvolto da una scrittura che penetra nelle viscere; uno ammantato da una coltre di neo sarcasmo che ha il gusto della burla da scemo del paese. Vi è, in mezzo, una verità che a nessuno preme di indagare, e questo è intellettualmente scorretto. Se non è scorrettezza, allora è disinformazione. Peggio, sia per gli uni che per gli altri recensori. Questo Paese (il mio, il nostro) si culla, da un po’ di anni, sotto allo scintillio di gemellaggi imprenditoriali e politici che hanno evidenziate le voci “Balcani” e “Mediterraneo”. Finanziamenti e investimenti pubblici sono dirottati in quelle direzioni. Public Relation e New Economy. Tutto è meravigliosamente nuovo e splendidamente redditizio per una specifica classe politica e imprenditoriale. Il libro di Babsi Jones, a prescindere dalle recensioni, a prescindere – perfino – dal piacere o meno, avrebbe dovuto suscitare un qualche interesse da parte della stampa. Avrebbe dovuto, qualcuno (sarebbe bastato uno solo), domandarsi: Sarà vero? E invece no. Invece vi è silenzio e vi è la solita accondiscendenza passiva e stupido atteggiamento da burattino che è il male cronico di ogni italiano. Ci si perde nelle discussioni vuote, fatte di piccole prepotenze intellettuali, e si devia dal fatto in sé. È così che siamo stati educati: ci scagliamo frecce avvelenate da archi sempre tesi e dimentichiamo di osservare, pensando che uno sguardo qua e là sia sufficiente.
Penso, io, che semmai dovessi incontrare la Letteratura, le domanderei scusa per il ruolo in cui, noi, l’abbiamo relegata. E, se, per un’inaspettata fortuna, mi dovesse capitare di incontrare il Giornalismo, mi prenderei la briga di domandargli: Dove ti sei nascosto per tutto questo tempo? Ritorna, ché mi manchi assai. Il resto è brodaglia: recensioni viscerali e recensioni sarcastiche. Solo consueto sapore di sé.

domenica 21 ottobre 2007

Randagi International

Randagi sta ottenendo un discreto successo. Al fine di non limitare la lettura dei racconti ai soli italiani, con la mia amica Jane (Bhuidhe, per la blogosfera) ne abbiamo ipotizzato la traduzione in inglese. Naturalmente a tutti gli autori sarà chiesta autorizzazione e sarà inviato, in privato, l’indirizzo e-mail di Jane al fine di concordare passaggi e trasposizioni.

Jane, oltre ad essere una carissima amica, ha competenze specifiche e ampia professionalità nel settore. Competenze e professionalità che, esclusivamente per Randagi, saranno completamente gratuite.

Personalmente vedo in questo progetto, oltre che l’affermazione di un concetto che mi sta caro (la rete non è: la rete si fa) il nostro no alla burocratizzazione dei blog. Ritengo che la velocità, la gratuità e la facilità di questo mezzo sia un potere che i cittadini italiani non debbano mai lasciare intaccare. È l’ultima voce realmente libera, per chi, naturalmente, riesce a capire l’importanza di questa libertà.

Aggiungo due dettagli (a gentile richiesta e visto che da un po' di tempo, da quanto mi scrivete, è impossibile commentare sul mio blog):

1. Collaboro gratis anche con Buran, un'ottima rivista online che fa la stessa cosa di Randagi nella direzione opposta, cioè dalla lingua straniera verso l'italiano.

2. Mi sono tagliata i capelli da quando è stata scattata la foto (nel corso di una bella serata a Milano, n.d.a.)




JANE & ASSU

sabato 20 ottobre 2007

Strano errore, caro ministro. O no?

[Di seguito vi copioincollo il commento inserito sul blog del ministro Paolo Gentiloni, in particolare sul post “Internet. Un errore da correggere.”
La denuncia è partita – pare – dal blog di Grillo.]
Gentilissimo signor ministro,
non mi prendo la briga di leggere tutti i commenti al suo post, per due motivi: il primo è che non è mia abitudine frequentare il suo blog; il secondo è che ciò che lei scrive è più grave di quanto si possa pensare e voglio evitarmi l’ulteriore sangue amaro di dover leggere pensieri sconnessi ammantati – sovente – da nickname. Questo Paese (il mio, in nostro) non ha bisogno di maschere, ce ne sono state fin troppo: maschere ideologiche, maschere culturali, maschere professionali, maschere di partito… I blog rappresentano nulla di più delle chiacchiere che la gente comune (legga tranquillamente: italiani) fa quotidianamente nei luoghi di aggregazione. Ma sì, le chiami pure chiacchiere da bar, da treno, da pausa caffè! C’è un MA, tuttavia: evidentemente queste chiacchiere stanno sulle palle a qualcuno. Scrivo palle non per essere volgare, ma perché - diciamoci anche questo giacché ci siamo! – la politica è fatta da uomini e da qualche donna portata su da uomini, e tenuta a bada (quote rosa docet: intendiamoci, non sono femminista e penso che finché le donne si faranno costruire dagli uomini le quote rosa non ci sarà nuova storia). Ma torniamo al punto: è evidente che questa storia degli italiani che si “parlano e confrontano” attraverso il web e più nel dettaglio attraverso i blog, sta sulle palle a qualcuno. In caso contrario dovrei credere alla storiella della “svista-errore” e, francamente, riconosco alla classe politica italiana, quantomeno, quel grado di intelligenza per “non sbagliare casualmente”. Tuttavia, nell’ottica del “volemosi bene, perdoniamoci ché a sbagliare capita a tutti” direi che sarebbe auspicabile correggere immediatamente l’errore, senza farne una questione politica. Penso, io, che in questo momento particolare l’Italia abbia bisogno che i suoi “governanti” si occupino di ben altro, il bene del Paese per esempio, o – perché no? - il miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Perché, penso io, se i cittadini stessero un poco meglio, i blog non farebbero più tanta paura e non si rischierebbero più errori di questo genere. Lei non crede?
Assunta Altieri

giovedì 18 ottobre 2007

La parabola del figlio di Abramo. Parte seconda.

Ci fu un tempo in cui Dio chiamò Abramo e gli disse: Sacrifica tuo figlio sull’altare. Fallo per amor Mio. E Abramo condusse il figlio sull’altare, tirò fuori il suo pugnale affilato e alzò il braccio, dritto e fermo, sopra il suo corpo inerme e fiducioso. Ma Dio lo fermò: Mi basta sapere che l’avresti fatto, disse ad Abramo. Va in gloria e cresci il tuo figliolo nel nome Mio. E Abramo condusse il figlio dalla moglie e le disse: Cresci mio figlio nel nome di Dio. La donna era all’oscuro dello scherzetto che Dio [burlone] aveva giocato ad Abramo, pensò che il marito non avesse avuto le palle e, per dirla tutta, quel giorno aveva pure le sue cose e un filino di depressione [e a quei tempi mica c’erano tanti psichiatri pronti a prescrivere antidepressivi e psicofarmaci], così un po’ stordita, un po’ giù di pressione e un po’ svampita, condusse il figlio nella stalla vicina e lo sgozzò. Poi si rivolse al Signore Iddio e pregò: Sia fatta la tua volontà, Signore. Ti dono il mio figliolo diletto. Io gli ho dato la vita e Io gli ho dato la morte. In nome Tuo, s’intenda!
Dio che si era un po’ distratto si trovò di fronte al fatto compiuto.
Che cazzo hai fatto? Tuonò.
Non lo so, ero fuori di me. Lo sai che le mestruazioni mi fanno uno strano effetto! Certo che ci potevi andare giù meno duro con noi donne, Signore… A me non mi pare corretto che per tutta la vita devo penare per colpa di una mela e di una zoccola con le voglie.
Cos’hai fatto, donna? Hai ammazzato tuo figlio?
Io gli ho dato la vita e Io gli ho dato la morte, Signore. In fondo, che differenza c’è fra me e te?


Morale: un tempo i depressi si buttavano giù da una rupe, oggi ammazzano i figli. Donne, è ora che la smettiamo di crederci Dio. Dare la vita è un mistero prezioso che non dà il diritto di toglierla. Un figlio è una persona, non è cosa nostra, non ci appartiene. Gli dobbiamo rispetto.

Com'è possibile ch'io sia io senza te?

[Il post che segue, in realtà, l'ho scritto qualche tempo fa. Decisi di non pubblicarlo subito e mi venne l'idea del bloggarello. Contestualmente scrissi l'articolo, per Segnal'Etica, I blog-vip hanno assassinato la spontaneità creativa, rispetto al quale mi piacerebbe un vostro parere.]
In fondo, anche un post di analisi dei blog è uno stereotipo: chi non ha scritto (e se non l’ha fatto, credetemi sulla parola, prima o poi lo farà) un post o almeno un commento su “Che cos’è un blog. A che serve un blog.”? Ciò che qui ho letto (oggi, ma se avessi voglia e tempo di fare un po’ di ricerca troverei/ritroverei, sono certa, almeno 3000 post simili quantomeno nel concept) è talmente sacrosanto che chiunque osasse anche solo pensare che non è vero andrebbe sbendato immediatamente. Ma fin qui, perdonatemi l’arroganza, ci arrivano tutti. E, tutto sommato, non serve neppure pescare nel vasto calderone freudiano per capire che, educati al reality show come modus vivendi, cerchiamo nell’altrui verità brandelli della nostra. È perfino biblico, secondo me: passiamo buona parte della nostra esistenza a individuare le pagliuzze negli occhi dell’altro. Ciò che non è biblico, ma terribilmente attuale e laico, è la perseveranza non tanto nell’ignorare la trave che sta nel proprio occhio (ché l’ignoranza non è ammessa solo per le leggi dopo la vacatio legis), quanto nel constatarla e nel trovare giustificazioni, cavilli e palliativi.
Sto divagando, però.
Torniamo al punto: i blog.
Personali o d’Opinione? Questa è la distinzione fondamentale (al di là delle altre differenziazioni che, nel marketing sarebbero definite di secondo livello, che non vuol dire di secondaria importanza: letterario, scientifico, sociale, eccetera) che in genere se ne traccia. Come se il pensiero personale fosse scevro dall’opinione, come se la vita di una persona non risentisse di ciò che le accade attorno. E qui, credo, stia il grande dramma dei miei connazionali: la vita privata è un conto, ciò che accade nel Paese altra roba. Ma è davvero possibile? Sono così sola a ritenere inscindibile l’altro da me, il pubblico dal personale, l’ingiustizia che altri subiscono dall’ingiustizia che io sto subendo, il tentativo di desautorare un magistrato dal tentativo di privarmi del diritto alla giustizia...? Com’è possibile che tutto questo non entri a far parte della sfera personale? Com’è possibile che il mio fallimento sentimentale o i miei gusti musicali, che secondo le logiche del saltatempo risultano essere le tematiche più gettonate, non siano influenzati da ciò che mi accade attorno? Com’è possibile ch’io ami Paint It Black senza ricondurla alle mie opinioni rispetto a ciò che mi circonda? Com’è possibile non considerare un tutt’uno l’esperienza accumulata nel pubblico e nel privato? Com’è possibile prescindere da ciò che ci accade come cittadini?

mercoledì 17 ottobre 2007

Belle cose accadute in mia assenza.

È stato selezionato il mio racconto “Concetta e il ciondolo portafortuna.”, per il libro di favole dedicato a Gramos. Sono onorata di far parte di questo progetto che dà al web e alla blogosfera una dimensione più vicina a ciò ch’io intendo per rete.

È stato pubblicato, su Segnal’Etica il mio articolo
“I blog-vip hanno assassinato la spontaneità creativa.”

Sono rientrata da circa un’ora. Vengo a sbirciare silenziosa nei vostri blog, leggo i commenti lasciati qui da me e mi riposo ché sono un po’ triturata.
{commenti chiusi}

martedì 9 ottobre 2007

Je vais à Paris, la ville que j'aime plus que toutes les autres.

Parto. Per qualche giorno vi lascio le chiavi del mio blog e via libera: potete dare una festa o frugare nel cassetto, basta che al ritorno sia tutto a posto.
Vi lascio la quasintervista a Laura Costantini e Loredana Falcone e il bloggarello (dove continuo a raccogliere le vostre risposte). Poi, facendomi sedurre da Diego: otto cose che non sapete di me. E rilancio con una proposta: ognuno si sceglie un blog e traccia le otto cose che ha capito di quel blogger.
Qualcuno ha notato sul mio blog il banner Ibis Award. E qualcuno ha ritenuto di candidare il mio blog. Grazie. Ieri sono state stilate le classifiche dei finalisti, fra cui Antonio Vergara il cui blog, soprattutto negli ultimi mesi, è cresciuto in ironia e sottile intelligenza. Antonio, faccio il tifo per te. Tienimi informata.
L’11 ottobre, ore 20:00, al Frida Cafè, in via Pollaiuolo 3, a Milano: presentazione di Sappiano le mie parole di sangue, Babsi Jones.
Au revoir.

domenica 7 ottobre 2007

A.A.A. CERCASI BLOGGER BELLA E SPREGIUDICATA PER BLOGGARELLO.

Propongo un BLOGGARELLO, invitando una bella blogger a un servizio fotografico ad hoc. La dinamica è questa: si parte da una foto in cui la bella bloggerellista apparirà vestita di tutto punto e post by post…via un indumento! Seguirà un libro: Cercavo l’amore e ho trovato solo sesso. Il libro sarà infarcito di mielose abitudini sentimentali femminili e pescherà nel calderone freudiano i vari scontati perché e percome.

PERCHÉ?
Ultimamente – ma non solo – sto leggendo in giro vari post che analizzano e spiegano come far decollare un blog. A conti fatti mi pare di poter desumere che il successo di un blog sia conclamato dalla quantità di commenti che, tuttavia, deve essere equilibrato: il numero troppo elevato di interventi crea un certo disordine e, per contro, l’esiguità dei commenti penalizza e demoralizza. Qualcuno propone una solidarietà fra blog di nicchia, concetto molto simile a quello che definii, a suo tempo, gemmazione.
Fin qui tutto condivisibile, ma, ben guardando, ciò che, realmente, premia, anche sul web – non riusciamo proprio a scrollarci di dosso l’imbarbarimento mediatico! – è la provocazione.
ALLORA CHE FACCIAMO?
Naturalmente – lo preciso perché questo blog lo legge anche mia figlia che mi considera una folle capace di tutto – non intendo mettere in atto l’idea (al massimo la vendo al miglior offerente, offrendo anche spunti creativi per il libro!:), ma porre una domanda:
LA VOSTRA SCRITTURA
RISENTE IN QUALCHE MODO E COME
DEI COMMENTI CHE RICEVETE?

Mi piacerebbe ottenere il maggior numero di risposte e (siccome il mio blog non è proprio quello di Grillo) vi chiedo di linkare questo post.

sabato 6 ottobre 2007

Quasintervista a Laura Costantini e Loredana Falcone.





Laura e Lory blogger e scrittrici. Anzi, scrittrici e blogger. Il loro libro: New York 1920. Il primo attentato a Wall Street. Un libro storico? Un libro d’amore? Scopriamolo insieme a loro.





Due scrittrici, un romanzo, due personaggi femminili.
Cecilia e Lisbeth sono molto diverse. Ho immaginato, leggendo il libro, che ognuna fosse il personaggio delineato da una di voi due: Lisbeth-Laura e Cecilia-Lory. Può, tuttavia, trattarsi dell’interpretazione da lettrice di “nuova generazione”: lettrice che conosce lo scrittore prima di conoscere il suo libro.
Quando si scrive a quattro mani, capita spesso che i lettori si sforzino di individuare nei personaggi l’una o l’altra delle autrici. Non è una chiave di lettura sbagliata se si parte dal presupposto che scrivere è anche un modo per conoscere la parte più profonda e nascosta di se stessi. Nel caso di “New York 1920” ci siamo divertite a sparigliare un po’ le carte, invertendo i ruoli che la vita, quella reale, ha scelto per noi. Mentre Laura ha privilegiato la dimensione più “pubblica” dedicandosi quasi esclusivamente al lavoro e alla carriera, Loredana ha privilegiato la dimensione “privata” e familiare. Viene istintivo, per chi ci conosce, pensare che questa divisione dei ruoli si sia rispecchiata nei personaggi del romanzo. Non è così. La “dura” Lisbeth, donna che affronta le difficoltà dei primi passi dell’emancipazione in un mondo ancora totalmente dominato dai maschi, è in realtà l’alter ego di Loredana che si è divertita a dar vita nel personaggio alla “donna in carriera” che avrebbe potuto essere. Mentre la “dolce” Cecilia, così portata alla maternità e alla dedizione al proprio uomo, ha consentito a Laura di immaginarsi moglie e madre.
Ovviamente scrivere è essenzialmente un esercizio ludico per noi (hai presente quando i bambini dicono: adesso facciamo che…) e quindi non avrebbe senso usare ogni volta lo stesso escamotage. A facilitarci il gioco è sicuramente la varietà dei generi trattati: “New York 1920” è un romanzo storico,
“Eibhlin non lo sa…” è un fantasy, “La guerra dei sordi” affronta il delicato tema dei rapporti israelo-palestinesi, “Le colpe dei padri” scava nei meandri spesso dolorosi dei rapporti familiari. Nessuno di questi è un romanzo d’amore e al tempo stesso lo sono tutti perché se uno scrittore è un creatore di vite nessun personaggio accetterebbe di vivere una vita senza amore.

In effetti avevo immaginato il contrario. Penso dipenda dal fatto di aver conosciuto voi prima del vostro romanzo. Chissà che questo non sia un “nuovo” modo d’intendere la scrittura? Mi spiego: i blog hanno una velocità e una mediazione così poco gestibile che, inevitabilmente, ci si scopre. Lo scrittore si mette a nudo nel suo essere se stesso prima che attraverso un personaggio (due nel vostro caso).

Hai ragione. Quando abbiamo deciso di affrontare la blogosfera non immaginavamo che sarebbe stata un’esperienza così totalizzante. Laura, nelle sue vesti di giornalista, aveva già incontrato la realtà dei blog, ci sono parecchi personaggi del mondo dello spettacolo che hanno scelto di esprimersi anche attraverso questo mezzo. Una per tutti Selvaggia Lucarelli che al suo blog dedicato al gossip più estremo, prima ancora che al matrimonio con il figlio di Adriano Pappalardo, deve la sua successiva carriera di opinionista. Ovvio che, con questo genere di esempi, la blogosfera non ci sembrasse particolarmente attraente. Poi abbiamo pubblicato “New York 1920” e ci siamo scontrate con la difficoltà che incontrano tutti gli scrittori esordienti: trovare un minimo di spazio e di visibilità. Non solo. Noi due scriviamo da tempi immemorabili ma in realtà non avevamo mai avuto veri contatti con altri scrittori o aspiranti tali. Cercavamo un modo per entrare, fosse pure virtualmente, in un mondo, quello “letterario”, cui sentivamo e sentiamo di appartenere (e non tutti la pensano come noi, ma questa è un’altra storia). Così, un bel giorno di ottobre del 2006 (esattamente un anno fa, adesso che ci pensiamo) Laura si fa un giro sul web e decide di comprarsi un dominio. Nel pacchetto è compresa la possibilità di creare ed aprire un blog, cosa che appare decisamente più facile che organizzare un sito web. Quindi Laura (se non si fosse capito lei è la pioniera delle due) si arma di pazienza, si legge le istruzioni e apre il primo blog cominciando a postare qualcosa. La piattaforma, però, non è delle più valide e quindi, dopo qualche mese, decidiamo insieme di traslocare su Splinder.

Finalmente su Splinder! E...

Non ci saremmo mai aspettate di essere proiettate in un mondo assolutamente affascinante di persone le più diverse, tutte molto intelligenti, vivaci, intellettualmente stimolanti, spesso egocentriche (ma chi non lo è nel proprio intimo?), ma soprattutto affini. E in nome di questa splendida affinità è successo che, di post in post, è venuta fuori la nostra vera essenza, il nostro modo di pensare, di vivere, di reagire. Come tu giustamente osservi, la velocità e la mediazione di un blog è quasi ingestibile. Ne sono derivati scontri (anche con te), fraintendimenti, errori di valutazione, chiarimenti, riflessioni. Ma in questa sorta di second life di Lauraetlory hanno tutti avuto il loro valore, il loro scopo: una crescita nata dal confronto e dalla comunicazione. Che poi (e chi ci conosce, lo sa) è esattamente quello che cercavamo in un blog.

Lisbeth è una donna indurita - non dura, come mostra l’evolversi della storia (particolare che lasciate intravedere quasi subito). In contraddizione – forse – con il suo animo che rivela quella femminilità convenzionale che lei utilizza come mezzo per stare in mezzo agli uomini. Vive la mascolinità come una condizione naturale. Si adegua-reagisce-si adegua-reagisce. Cecilia, con le sue “nuove ambizioni” mantiene – anche attraverso quel parlato partenopeo che si trascina dietro quando sta con “i paesani” – valori che la contraddistinguono sin dall’inizio. Si cambia solo per amore?
No. Diciamo piuttosto che l’amore è una sorta di catalizzatore che rende possibile una reazione chimica che porta alla luce la vera essenza delle persone. Ci verrebbe da dire delle donne perché tali siamo e perché ci è difficile capire le motivazioni profonde degli uomini. A ben guardare, se vogliamo usare “New York 1920” come una sorta di metafora, Lisbeth e Cecilia in realtà non cambiano affatto. Lisbeth, come giustamente osservi, è una donna molto femmina che ha imparato a proprie spese i meccanismi necessari per mantenersi a galla. Si adegua e reagisce alle diverse situazioni, ma questo non intacca la sua vera natura che è poi quella di darsi completamente e a rischio della sua stessa vita quando uno scopo attraversa la situazione di stallo in cui l’ha lasciata la morte del marito. Uno stallo che pensava definitivo e uno scopo di cui è la prima a sorprendersi. Cecilia è altrettanto fedele a se stessa. Seguace di valori tradizionali, certo, ma a ben vedere già convinta, grazie all’ingenuo ma efficace sforzo di sua madre, di poter puntare più in alto di quanto la sua condizione di popolana ed emigrante sembri concedere.
In entrambi i casi, l’amore catalizza gli sforzi e facilita il risultato. Ma il sentimento da solo non sarebbe bastato (nella finzione così come crediamo non basti nella realtà) in assenza di basi solide e già maturate.
Dite che nessuno dei vostri romanzi è un romanzo d’amore e al tempo stesso lo sono tutti. New York 1920 ne è, sicuramente, una prova. Romanzo storico, che tocca una nostalgia mai completamente “curata” da una Nazione spesso etichettata proprio in base ad essa; si inerpica, tuttavia, in una doppia storia d’amore che s’intreccia e – lo confesso, anche per una che non ama i romanzi d’amore come me – ti tiene incollato alle pagine.
Eros e Thanatos sono da sempre la base della narrativa mondiale. Per una storia d’amore, nel Libro per eccellenza, la specie umana si è giocata il Paradiso Terrestre. Per amore si è combattuta la più epica delle guerre, quella di Troia. Per amore gli eterni personaggi di Shakespeare hanno dato voce agli istinti più profondi e primordiali dell’essere umano. Tutti i romanzi che narrano una vicenda umana sono storie d’amore. Abbiamo letto moltissimo e continuiamo a farlo e anche fermandoci un attimo a pensare, ci riesce difficile individuare un romanzo che non contenesse una storia d’amore, da Furore di Steinbeck a I pilastri della terra di Follett, da Non ti muovere della Mazzantini a L’amante di Yehoshua, da Mille splendidi soli di Hosseini a Il dio delle piccole cose di Roy. Eppure nessuno di questi potrebbe essere catalogato come “romanzo d’amore”.
Non che ci sia nulla di male in questa definizione, solo che nel tempo ha assunto una valenza negativa, da lettura adatta soltanto per signorine in attesa del grande amore o del buon matrimonio.
Il format della doppia storia d’amore potrebbe portare – come nel mio caso – a saltare capitoli per poi tornare indietro. Mi piace perché dà libertà di “interpretarsi” la lettura.
Ci piace scoprire la tua chiave di lettura: questo approfittare della doppia storia d’amore per scegliere, di volta in volta, quale delle due protagoniste seguire.
Interpretare la lettura secondo il proprio gusto è cosa che non tutti i lettori sono in grado di fare, eppure è una delle tante, splendide libertà che un libro offre. Rileggere in toto, aprire un capitolo a caso, procedere saltando da pagina 20 a pagina 110, tornare indietro. A ben guardare l’attuale supporto DVD ha tentato di dare le stesse caratteristiche anche alla narrazione visiva. Ma la bellezza dell’immagine ha pur sempre il limite evidente di essere già un’immagine e quindi bloccare ogni manipolazione dell’immaginazione. Mentre la parola scritta si offre in tutto e per tutto come spunto, come primo mattone per costruire. Un libro è un detonatore per la fantasia del lettore.
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Le altre quasinterviste

La pena che mi strugge è che io amo questo Paese. Il mio, il nostro.

Lo amo. E non ce la faccio più a vederlo calpestato come le aiuole di un parco abbandonato a se stesso, in mano a giardinieri che non danno acqua alle radici perché serve a innaffiare i loro giardini privati e le loro verdeggianti immagini che – nonostante tutto – imperano sui 70*100 (ché siccome si affiggono sui marciapiedi ad altezza-sguardo raggiungono più facilmente il target: cittadini tutti, basta che siano svogliati, ignoranti e (dis)interessati delegatori). In mano a un Sistema Mafioso che non vede confine alcuno fra delinquenza e politica.

APPELLO PER LA GIUSTIZIA E LA LEGALITÀ IN CALABRIA (ma riguarda tutti, però; non ce ne laviamo le mani ché l’Italia è una, e questo è ora che lo si capisca).
{commenti chiusi}

mercoledì 3 ottobre 2007

Parliamo di voi.

In questi giorni non ho molta voglia di scrivere, ma è tornata imperiosa la voglia di leggere. C'era uno (uno importante, mica uno così, eppure non mi ricordo chi fosse) che diceva che non voleva neppure parlare con chi aveva scritto più parole di quante ne avesse lette. Be', con me ci potrebbe parlare.

Dunque.
Ci sono in giro certi post incazzati (quanto ti capisco!), dubbiosi (in fondo basta scrollarsi di dosso l’io e tutto resta esattamente com’è, non credi anche tu?), divertenti ma… (quand’è che ci sentiremo veramente libere di essere donne?), che parlano di libertà (grazie per la citazione, io ne sono sempre più convinta), o di uva ed esseri umani (quando mia madre s'incazzava sul serio, con me bambina, mi diceva: adesso sconti l'uva e gli acini! Forse anche lei era giunta alla tua stessa deduzione), o di modi semplici di essere felici (a presto, Giulia), impegnati (ammiro la tua determinazione, in grado di sciacquare di dosso quella stupida indifferenza che ci attanaglia), di siciliani piemontesizzati ma mica tanto! (certe abitudini non cambiano mai, però ricordiamoci anche questa cosa qua), di dis-informazione (diviso perché ce ne sono due, come i modi di vedere e di trasmettere le notizie), che creano stacchi all’immortalità (c’è una cosa che non ti ho ancora detto: ma lo sai che sei proprio brava?), che riflettono sulla vita/morte (sin da bambina, io, ho maturato la convinzione che solo una persona che può morire adesso è realmente una persona, chissà voi cosa ne pensate?), che parlano di Milano (e io ripenso che per me Milano è solo Milano), … C’è tanto in giro, proprio tanto. E penso che mi piace questa cosa qua.

Poi.
Oggi ho riletto un libro che mi era piaciuto a suo tempo e mi piace ancora: Nudi e crudi, Alan Bennet. E, Scritto sul corpo, dello stesso autore, che non avevo ancora letto. (Circa cinque ore di viaggio, ben spese).
Ho letto, appena uscito (chiaro!): Sappiano le mie parole di sangue, Babsi Jones e ve ne parlerò perché merita un post, ma in questi giorni sono troppo dolente e incasinata e fra un po’ parto per Parigi. Intanto vi consiglio di acquistarlo, leggerlo e fare un salto nel sito-labirinto. E ho letto pure, oramai un po’ di tempo fa, New York 1920, di Laura Costantini e Loredana Falcone, e qualcosa bolle in pentola.
Ho ordinato per la quarta volta Il quaderno delle voci rubate di Remo Bassini. Remo, se leggi fammi sapere come faccio ad averlo. Non meno difficoltoso mi risulta l’acquisto di La famiglia immaginaria di Eva Carriego. E ho ordinato anche Tolbiac di Beppe Sebaste. Ho riacquistato, in libreria, assieme a vari nuovi fra cui un innominabile (non si sa mai!), Un uomo, Oriana Fallaci, ché la sister s’è presa il mio sostenendo ch’è suo (il peso della famiglia!). Sto aspettando che esca Ancora dalla parte delle bambine, Loredana Lipperini di cui avevo già scritto qua.

Ancora.
È on line il magazine speciale scuola di MenteCritica.
E pure il terzo numero di Randagi.

martedì 2 ottobre 2007

Un, due e...Randagi tre.


La rete non è: la rete si fa. L’ho scritto quando ho presentato il primo numero di Randagi e ne sono profondamente persuasa.

Il progetto sta ottenendo un discreto successo. Ringrazio chi ha già inviato un proprio racconto. Sto cercando di pubblicarli in ordine di arrivo, anche se mi prendo qualche piccola licenza.

È on line il terzo numero (Randagi#3file pdf 333Kb), con i contributi di:

Beppe Sebaste, In viaggio verso Bologna sulla via di Damasco.

Cinzia Pierangelini, Non c’è musica.

Ilaria Ubaldi, Quella ragazzina…

Qui potete scaricare i numeri precedenti:

Randagi#1, con i contributi di Remo Bassini, Babsi Jones, Assunta Altieri
Randagi#2, con i contributi di emi, Eva Carriego, Renzo Montagnoli

Prossimo numero a novembre.
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lunedì 1 ottobre 2007

Ritorno.

Ho sempre sostenuto che il mio blog non è un diario.
Non lo è.
Eppure.
Eppure, finisce che vi confluiscano stati d’animo. È la croce di chi ama scrivere, forse. Ciò che senti s’insinua, inevitabilmente, fra le righe, a fermare quella sensazione che t’invade. E non si può che soccombere.

B. mi ha scritto: “…mi hai spiazzata, non so reagire di fronte a una te che dichiara pubblicamente una sofferenza…”. È stato un po’ il filo conduttore della maggior parte delle e-mail che ho ricevuto e per le quali vi ringrazio.

Sorridere, comunque, alla vita è l’impegno che ho preso quel quattro maggio di un po’ di anni fa. Fardello duro talvolta. Ma è quanto di meglio possa offrire al mondo e perciò torno ad affacciarmi ad esso con il mio sorriso. Quello che mi accompagna nelle intemperie e mi tira sempre fuori da tutto.

Non ho voglia di raccontare, ma voglio scrivere pubblicamente che nella brutta vicenda che mi ha coinvolta la polizia è stata efficace, tempestiva, professionale e umana al contempo. È importante scriverlo perché non è giusto sottolineare sempre e solo ciò che non funziona. Ci sono donne e uomini dietro quelle divise. Persone.