GLI ALTRI CASSETTI

sabato 30 giugno 2007

Quanta strada ancora dobbiamo percorrere?

Non è da tanto che ho ricordato Hina. Mia figlia mi ha chiesto: perché? E io non ho saputo dare una risposta. La diversità non esiste, le ho sempre detto, è frutto della nostra incapacità di capire. E io non capisco. Non capisco perché ci fossero quasi esclusivamente donne musulmane a protestare per Hina. Non capisco perché non si gridi al dolore. Sì, il dolore. Non c’è da vergognarsi a provare dolore, non è segno di debolezza ma di umanità. E c’è bisogno di umanità. Un amico mi ha scritto: ... col tempo impareremo a considerarci persone, non maschi, non femmine, persone che hanno qualcosa da raccontarsi, qualcosa da darsi…

Da Carlo, leggo: “…al processo contro i massacratori di Hina Saleem, la ragazza uccisa nei dintorni di Brescia l’11 agosto 2006 perché voleva vivere normalmente, e dunque rifiutava le regole del suo clan e della sua religione, non è stata ammessa la costituzione di parte civile da parte di un’associazione di donne musulmane. Lo trovo sconcertante: oltre a non difenderle noi (la sinistra purtroppo su questo ha molte ambiguità), non permettiamo neppure che si difendano da loro, le donne musulmane. Chi mi conosce sa che detesto le religioni (le considero strumenti di potere e d’oppressione, tutte), ma, appunto, non faccio distinzioni: oltre al cristianesimo e all’ebraismo, per dire, detesto cordialmente anche l’islam. La sinistra invece sembra fare timorose distinzioni, che personalmente non sopporto. Quando fu uccisa Hina scrissi una specie di poesia, che si trova a pag. 571 del mio libro La parola rinvenuta. Ce l’ho voluta mettere, allora, nel libro, pur sapendo che non è una «vera» poesia, ma piuttosto un discorso civile. Ma mi sembrava necessario. E mi sembra necessario anche adesso.”

Carlo Molinaro, e la poesia la potete leggere
qui.

mercoledì 27 giugno 2007

Io "mi scrivo" da me.

Remo Bassini ha scritto un bel post sul giornalismo di provincia e chi lo fa. Mi capita sovente di sviluppare argomentazioni da argomentazioni seguendo un filo logico che, lo riconosco, talvolta è solo mio. Pertanto ho risposto così:
Qualcuno* ha scritto a proposito dei commenti nei blog “Se volete un posto dove vomitare i cazzi vostri, aprite un vostro blog” e siccome condivido, in genere non vado in giro a rigurgitare e uso il mio cassetto per farlo. Scusami Remo, se questa volta sono incoerente e vengo a vomitare da te.
Va bene difendere la categoria. D’altro canto io faccio la pubblicitaria e quindi capirai bene quanto e quante volte mi trovi nella situazione di doverlo fare. E va bene perché ognuno conosce il proprio universo professionale sicuramente meglio di chi va argomentando alla cieca. Potrei perfino aggiungere una categoria trasversale che è quella dei copywriter. Anche i loro ritmi sono incalzanti, fra modifiche delle bodycopy che arrivano quando hai già pronto l’esecutivo di stampa e bla bla bla. Non sto a ripetere ciò che tu hai già scritto, e bene.
Ora, ciò che – in tutta franchezza – non riesco a tollerare non sono le incoerenze letterarie (uso l’espressione in un’accezione ampia che annovera il lavoro di scrittori, giornalisti e copy) giustificate dalla fretta (spesso), dalla disinformazione (talvolta), dalla presunzione (spessissimo), quanto i numerosi errori di grammatica e sintassi. Diciamocela tutta, se uno scrivendo di getto scrive “qual’è” o “un’uomo” o “perchè” o eccede in interpunzioni ed esclamativi dimenticando l’importanza di una virgola e di un punto, la differenza fra accento e apostrofo, presumibilmente non ce l’ha nel proprio dna la grammatica, o no? Tuttavia, siamo ancora alle pignolerie. Le castronate vere e proprie, spesso, questi signori le fanno quando partono lancia in resta in difesa della lingua italiana, farcendo le loro arringhe di “attimini”, “momentini” e similari. E quando non riconoscono che nella rivoluzione grammaticale degli adolescenti c’è molto di più dello stupro della lingua italiana di cui tanto si parla. In nome di che? Di qualche “pezzo” scritto e di qualche libro pubblicato?
Giulio Mozzi vuole “far cantare” gli scrittori che hanno poggiato il fondoschiena sulle lussuose poltrone della grande editoria**, scoprire gli arcani di un sistema che, in realtà, si srotola senza dignità di fronte ai nostri occhi assuefatti. Qual è la novità? Dove sta l’innovazione? Da un lato si indossa la maglia del “no-global” e si grida al lupo al lupo perché i grandi brand hanno cannibalizzato l’artigianato e, in genere, la produzione di qualità e, d’altro lato, si anela alla consacrazione della parola scritta sotto il marchio che fa vendere. E allora lo si dica chiaramente: scrivo perché voglio vendere e voglio vendere tanto e voglio incassare denaro, perché alla fine è là il nocciolo. O no? Non c’è mica da vergognarsene. La verità rende liberi.
Pubblicare, oggi, è diventato piuttosto semplice. Perfino a me hanno proposto di “lavorare seriamente a Quelli della mia specie, perché c’è un serio interesse alla pubblicazione”. A che pro? Intendiamoci, non faccio mica come Guccini, io: …non comprate i miei dischi e sputatemi addosso…, semplicemente mi domando a che pro? Per aggiungere una riga nella sezione pubblicazioni del mio curriculum?
Che sapore ha la scrittura? Mi piacerebbe che i tanti scrittori di rete e in rete (differenza sottile ma sono certa che l’intenderete) ne parlassero, perché di procedure e reality show oramai non ne possiamo più.
Ringrazio Remo Bassini per la sua risposta:
hai scritto un post, qui da me, grazie.è un argomento, sono argomenti di cui dobbiamo ri-parlare.lo dico sempre che questo blog è un grande blog: più per i commenti che per i post. giuro: son sincero.
Io non so se avrei saputo essere così gentile di fronte a un conclamato off topic come – inconsapevolmente – è diventato il mio intervento man mano che lo scrivevo.
Marco Salvador ha risposto:
assunta. “scrivo perché voglio vendere e voglio vendere tanto e voglio incassare denaro.” parole sante, io la penso così. il che non implica scrivere cagate e piegarsi proni al gusto del pubblico. mai dato fantastici eroi o battaglie campali ai miei lettori. il genere lo contemplava, ma loro hanno capito e non mi hanno abbandomato. il lettore è meno stupido di quanto si creda; naturalmente non mi riferisco a quelli che in bibliotea hanno solo melissa p. o la santacroce o le balzelette di totti.
Condivido pienamente ciò che scrive Marco Salvador. (Si può leggere qui.) Ma lui è già uno scrittore. Ha saltato l’attuale trend dello scrittore step by step. Può permettersi quella onestà intellettuale che a me pare manchi (come possibilità, s’intenda) alla massa enorme di scrittori emergenti e aspiranti scrittori emergenti disposti a tutto per vendere poche centinaia di copie e costretti a quella odiosa menzogna della scrittura come libera espressione. Espressione di che? Libera da cosa? Se la scrittura fosse solo espressione basterebbe scrivere sul web. Se fosse libera non ci si crogiolerebbe nel limbo dello scrittore emergente, ruolo che oramai, diciamocela fino in fondo, tutti possono acquistare con poche migliaia di euro. Da qui a investirne qualcuno in più per arrivare alla grande editoria (quella che può permettersi le campagne di lancio nazionale e le ospitate in televisione), quanto passera?
Chi ne pagherà le conseguenze saranno i lettori. Sarà questo il motivo per cui ci sono più aspiranti scrittori che lettori nel nostro Paese? Sarà che visto l’andazzo ognuno si scrive il proprio libro?
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*Non ricordo il blogger che l'ha scritto, mi spiace. Semmai dovesse palesarsi lo linkerò.
**L'informazione viene dal post di Laura&Lory.

Violenza e sua eco: percezione.

Non ancora persone: solamente donne. Dal taccuino pubblico di Babsi Jones, che come sapete ho letto quella volta e continuo a leggere: "...Perché sto scrivendo tutto questo (e lo sto scrivendo in modo sconnesso, da brogliaccio)? Perché la settimana scorsa mi è capitato fra le mani un libro. BRUCIATA VIVA. L’autrice si chiama Suad, naturalmente è un nome falso, Suad si deve nascondere. Suad era una giovane cisgiordana..."


Conoscevo la storia di Suad, anche se non ho letto il libro. Non l’ho letto per scelta giacché più volte mi è stato sventolato sotto al naso da una sorella inorridita. E non l’ho letto nonostante l’abbia acquistato. Non significa non voler vedere il problema. C’è. Come la storia di Hina Saleem, uccisa e scaricata come immondizia da suo padre e suo fratello perché troppo occidentale. Come la storia della ragazza rumena a cui un collega/conoscente ha strappato, con le proprie mani, i genitali per la furia di uno stupro non riuscito. Ricordate il post di Daniela Tuscano? La violenza si esplica variamente. Lo stupro ne costituisce solo l’esempio più plateale. E non ha altra radice che nel modus pensandi maschile. Pragmatico si dice. Incentrato sul proprio godimento, direi. L’ho scritto qui
Lo conosco il problema. Lo conosco, lo sento dentro, sotto la cute come ago che ti inietta il liquido di contrasto quando fai la tac. Sei lì circondata da persone che per quanto sforzino un’affabilità insolita nella sanità che meglio conosciamo preceduta dall’aggettivo “mala”, percepisci come ostili. Ed è questa la percezione che chi ha subito violenza ha del parlare che se ne fa, anche quando rompe il silenzio, anche quando se ne fotte dei benpensanti e dell’educazione castrante che impone di lavare in casa i panni sporchi. Lo so. L’ho vissuto sulla mia pelle. Lo vivo ogni istante, nonostante io sia una donna emancipata, adulta oramai, intelligente a quanto pare, disinibita tutto sommato.
Nonostante abbia rotto il silenzio.
È la rabbia l’unica buona compagna. Non la vendetta che non conduce a nulla. La rabbia che mi ha spinta, ancora bambina, a distruggere ciò che chi mi ha fatto del male amava di più: non i suoi fiori, quella è stata vendetta, ma la sua convinzione che il mio sì sarebbe stato per sempre. Se c’è un qualcosa che le donne d’occidente possono provare a raccontare come esperienza alle donne d’oriente non è altro che la consapevolezza acquisita con le unghie che si può dire di no. Si può. E va insegnato anche ai bambini, quando s’insegna a dire grazie, prego, scusi, per favore. Ai nostri bambini d’occidente come alle bambine infibulate (non se ne parla più ma ci sono ed è violenza).

lunedì 25 giugno 2007

Di calligrafia, limoni e agrumeti.

Jane (Bhuidhe), invita a palesarsi attraverso la calligrafia. Posto che la mia di “kallos” (che in greco significa bello, quindi calligrafia=bella grafia) non ha proprio niente, e pertanto mi limito a definirla grafia, raccolgo l’invito proponendo una di quelle citazioni che si trovano in giro e che, chissà quando chissà perché, ho appuntato sul taccuino.
Se la vita vi dà solo dei limoni, voi fatevi una limonata.
Il commento che segue sul taccuino è: Preferisco il velo di insoddisfazione che rappresenta per me l’incentivo a creare nuove mete, nel momento esatto in cui percepisco di starne raggiungendo una prefissata, all’arte disumana dell’accontentarsi.
Non ricordo quando l’ho scritto, ma in fondo, con qualche smussatura, potrebbe essere oggi. E voi? Vi fate una limonata oppure piantate i semi di limone progettando un agrumeto?

domenica 24 giugno 2007

Donne, oltre alle gambe c'è di più! Ma intanto...


…intanto le gambe vanno più che bene, soprattutto se si tratta di politica e se la politica si prostituisce alla Tv aprendo la strada a un nuovo Grande Fratello Nazionale che ci regalerà (a noi italiani) una nuova fasulla piazza dove raccontare i fatti nostri, dove selezionare accuratamente domande, risposte e problemi di rilevante e univoco interesse.
Antonio Vergara, La Tv della Libertà
Ora, qualcuno potrebbe dire: Ingenua Assu, è da mo’ che la politica si è prostituita alla Tv! A ben riflettere, tuttavia, qualcun altro potrà convenire con la sottoscritta che con la TV della Libertà si è oltrepassato il limite giungendo incontestati e perfino ammirati alla spettacolarizzazione del rimasuglio ideologico di questo Paese (il mio, il nostro) e alla consacrazione del falso come verità assoluta. D’altro canto, ci hanno rubato i colori e l’orgoglio istituzionali, i colori e i payoff dell’orgoglio sportivo, il sentire più profondo che è la libertà. Ci rimaneva solo la nostra espressione variamente tradotta nelle chiacchiere da bar, da piazza e da muretto.
Ed ora non abbiamo più niente. Teniamoci la Brambilla e le sue gambe da urlo. Forse, in fondo, è ciò che ci meritiamo. Solo una richiesta a questo punto: si finisca di rompere con la storia che la pubblicità strumentalizza la donna. Grazie.
Qualcuno ricorderà il saggio di Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela. Mutuando la sintesi di Daniela Brancati, ne La pubblicità è femmina ma il pubblicitario è maschio: le donne sono state il primo strumento di scambio fra i gruppi, la prima moneta di cui per i maschi era comune ed evidente il valore, esse sono state anche la prima parola, il primo segno che ha permesso la comunicazione.

giovedì 21 giugno 2007

La piccina innamorata


Come sto? Mi domanda con un’aria civettuola che non le è mai appartenuta. E non dire che sto bene perché non è vero!
E qui entro nel panico. Cosa sarà giusto rispondere a una piccina innamorata che forse vuole sentirsi dire che sta da dio, o forse cerca la conferma per togliersi il top nero un po’ troppo elegante per una serata fra amici, o forse vuole che le dia il beneplacito per infilarsi finalmente la camicia appena acquistata che non ho ancora indossato e che rappresenta, per lei, il desiderio materializzato di un bisogno mai esistito? Scelgo la via della sincerità che finora ha dato buoni frutti.
Stai bene, forse però quel top è un po’ esagerato.
Ecco, lo sapevo, non ti piace come mi vesto!
Non ho detto questo.
Sì che l’hai detto.
Non l’ho detto, comunque stai bene.
Hai appena detto di no.
Non ho detto neppure questo.
Si che l’hai detto.
Non l’ho detto.
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. La situazione è comica e la piccina innamorata se ne accorge prima di me.
È che stasera…
Stasera cosa?
Bè, stasera ci sarà la sua ex.
E allora?
Vedi che non capisci!
Sì che capisco. Cioè capisco quello che provi, ma non lo condivido perché il presente è l’unico tempo che ci appartiene e nel presente ci sei tu. O no?
Non ho voglia di filosofare, mamma. A me quel passato mi brucia eccome.
Non lo puoi cambiare il passato. Ti fai del male inutilmente.
Come si fa a non pensarci?
Mah, concentrandoti sul presente, per esempio. Avendo fiducia in te e anche in lui.
Io ho fiducia, ma lo amo troppo…
Alla faccia dei paroloni!
Con te non si può parlare. Ma hai una vaga idea di come mi sento? Io lo amo eccome e non ho voglia delle tue razionalizzazioni.
Certo che ho idea di come ti senti, penserai mica di averlo inventato tu l’amore?
Squilla il cellulare.
Ciao mamma, ci vediamo stasera.
Ciao piccina innamorata!
Strizza l’occhio e soffia sulla mano un bacio che mi accarezza l’anima.

mercoledì 20 giugno 2007

Io sto dalla parte di Beppe Sebaste.

Il fatto che sto per raccontarvi si svolge nella mia città, che per chi non lo sapesse non è Pescara, dove vivo da circa tre anni, ma Parma, sebbene i miei impulsi nomadi mi abbiano portato a vivere in molte città, tutte amate, tutte ugualmente complici di momenti importanti. Il fatto è questo: alle ultime amministrative, lo scrittore Beppe Sebaste ha appoggiato, seguendo le sue libere idee, una lista di sinistra che si opponeva alla vincente lista di destra “A Parma con Ubaldi”, e per questo è stato e continua ad essere bersaglio e oggetto di veri e propri soprusi: attacchi personali a mezzo stampa, minacce di querele, messa all’indice in strada, rifiuto di saluto e simili dimostrazioni di quell'autoritarismo di cui parlavo, sebbene in forma diversa, qui. La denuncia meglio definita la trovate qui. Da parte mia, che – ironia della sorte! – per dieci anni mi sono chiamata Ubaldi, e tale è il cognome che porta mia figlia, colgo l’invito che mi giunge da molti amici della mia città e ne parlo sul mio blog, invitando tutti voi a fare altrettanto perché è tempo che in questo Paese (il mio, il nostro) la libertà di pensiero, la libertà politica, la libertà e la laicità assumano un aspetto concreto.

martedì 19 giugno 2007

Quando si dice: la sintesi!

Se qualcuno mi chiedesse dove ho trascorso la maggior parte del mio tempo negli ultimi giorni, risponderei di getto: a Roma. Mi domando, tuttavia, se sia corretto giacché ad eccezione di una sboronata sulla già citata Audi Cabrio nuova di zecca (per inciso non mia!) dall’Eur fino a Via Cola di Rienzo, ho trascorso la maggior parte del tempo sotto il getto odioso di condizionatori d’aria di uffici eleganti, ma pur sempre uffici.

Ore 17,15, rientro in Agenzia e decidiamo lì per lì di fare una riunione. Praticamente la mia vita nell’ultima settimana in particolare (ma non solo) si potrebbe sintetizzare nella parola “riunione”. Ho fatto la felicità dei copywriter più rigidi: ho ridotto all’osso, ho sintetizzato al massimo. Nel frattempo la vita, quella vera, ha continuato a viversi da sé.

La mia amica/collega mi propone di uscire insieme dall’Agenzia. Mi lascio trascinare. Fumiamo una sigaretta e percorriamo un pezzo di strada assieme. Abbiamo voglia di chiacchierare un po’ ma temiamo che a parlare vengano fuori solo parole collegate al lavoro. Domenica, mi dice lei, ho visto le tue telefonate. Non ti ho richiamata perché temevo che avremmo finito col parlare di lavoro. Volevo prendere un caffè, le dico con un po’ di magone, consapevole che avremmo, inevitabilmente, finito col parlare di lavoro. Ti accompagno a casa, mi propone. Abito poco distante e faccio sempre volentieri a piedi la strada, mi aiuta a riflettere, però ho voglia di stare con la mia amica e accetto. Parliamo un po’. È sempre piacevole parlare con lei. È una bella persona. Il lavoro è sempre là, sulla punta della lingua. Ce la mordiamo, ma tutto, cazzo, proprio tutto vi gravita attorno. Restiamo in macchina per un’ora, rubando attimi preziosi. Ce li ripigliamo dallo scorrere inesorabile del tempo.

domenica 17 giugno 2007

Cronaca di una coglionata annunciata


Oggi al TG, con precisione di particolari e tanto di filmati, hanno annunciato il nuovo trend dell’idiotissima razza adolescenziale del Regno Unito (definizione non mia): il car-surfing. C’era la cronaca di una coglionata annunciata per la nuova, immancabile, emulazione da parte dei nostri adolescenti. D’altro canto era dai tempi dei suicidi a catena che non si buttava merda sugli adolescenti. Certo, di tanto in tanto qualche vecchio bacucco improvvisato paladino della lingua italiana, in realtà già stuprata da molti di questi stessi cavalieri che partono lancia in resta al suon di “attimini” e “devolution” (cheppoi qualcuno prima o poi vorrà spiegarmi cosa significa esattamente essere politicamente devoluti), si imbarca in improbabili condanne dei x (per) e dei xé (perché), dei k (ch) e dei cmq (comunque), dei :) (sorrisi)… ma, diciamocela tutta, si stava aspettando da un po’ la nuova tendenza criminale, soprattutto perché l’esempio di Erica e Omar pare non aver attecchito e i genitori italiani, grossomodo, dormono sonni tranquilli, se non altro perché con le ultime batoste fiscali c’è rimasto poco da spartire in eredità.
E c’era pure il colpevole: YuTube.
Pur frequentando YuTube non mi ero ancora imbattuta in uno di questi video, salvo essere andata a cercarli dopo aver sentito la notizia in TV. Come me, suppongo, decine di adolescenti. E allora di chi sarà la colpa? Di YuTube o della TV che per impacchettare la notizia non manda un giornalista a indigare ma scarica da YuTube e poi sferza condanne?
Non resta che confidare nel buonsenso dei nostri adolescenti.

sabato 16 giugno 2007

Giù le mani dagli stipendi dei politici!

Fra opinioni, dissertazioni, articoli, post, commenti e blablabla si perdono le fila di un sistema politico italiano che non funziona. E non funziona a prescindere dal colore. Inchieste, indagini e sentenze mostrano il quadro di un’Italia allo sbando, dove la gente comune, i cittadini, che giusto per non disperdere troppo l’attenzione dal concreto siamo io, tu, noi, tutti noi, sono con le pezze al culo dell’economia e della dignità.
Le indagini sui costi della politica ci sorprendono? Nemmeno per sogno. Forse, e dico forse, un poco ci indignano. Se non altro perché è periodo di 730 e di modello Unico e siamo costretti a fare i conti con la concretizzazione di quel concetto che astrattamente andiamo trattando dalla Finanziaria in poi: le tasse. In uno dei frequenti flashback mi sono rivista bambina a domandare a mia nonna: come si fa a vendere un voto? Ad ascoltare le comari raccontare, liberamente, dei cinque, dieci, quindici milioni pagati per assicurare al proprio figliolo un posto fisso. In trent’anni non è cambiato nulla, solo le modalità e naturalmente i costi che si sono adeguati, secondo le logiche di mercato e di economia, all’inflazione prima, al passaggio all’euro poi. Non ci sorprendiamo delle centinaia di persone a vario titolo assunte nelle Pubbliche Amministrazioni, perché fa parte del tessuto culturale di questa Italia malata di delinquenza intellettuale. Non ci sorprendiamo perché, a conti fatti, non conosciamo alternative. Quando mai ha funzionato diversamente il sistema politico italiano? Le alternative sono solo un’utopia giovanile che si scontra presto con la realtà disegnata dagli adulti, fatta, caro Remo, di mancanza di palle. Se gli adulti prima di noi (e poi noi, una volta diventati adulti) avessero affrontato con meno pressappochismo e qualunquismo oscenità politiche che variamente sono state sventolate sotto nasi assuefatti e svogliatezze intellettualli, forse le cose, oggi, sarebbero diverse. Forse le ovvietà di una semplicità disarmante di cui Morgan parla qui, non sarebbero considerate solo vane elucubrazioni mentali di un giovane idealista.
È da quando ho letto il decalogo di Mario Pirani che dentro di me si agitano domande elementari: chi può cambiare le cose? Chi può tagliare i costi superflui della politica? Ho studiato legge, conosco il diritto pubblico e il diritto costituzionale, eppure non sono in grado di dare una risposta perché è inscritta all’interno di un sistema corrotto in cui non c’è un Nome e Cognome che debba dare conto. Risposta non c’è, o forse, chi lo sa, perduta nel vento sarà. E le risposte si perdono in un vento che, inevitabilmente, soffia contro gli italiani medi, quelli che la politica la subiscono e basta e che sono chiamati a interessarsene esclusivamente quando si va a votare, sempre che non si trovi un modo per evitare anche questa fastidiosa dipendenza dal popolino.
Quanto costa la politica? Si fanno indagini su indagini ma non se ne traccia mai un quadro completo, dettagliato, avulso da interessi di colore. Si fanno non per esigenze di chiarezza e trasparenza e per dare ai cittadini (che, per dirla con le parole di Grillo, sono i datori di lavoro) un rendiconto economico e preciso di come vengono investiti i loro soldi, ma piuttosto per creare nuove linee elettorali, nuove facciate di perbenismo e coscienza sociale. È così che, personalmente, ho interpretato la passionale Moratti che si taglia lo stipendio, salvo impossibilità burocratica che la costringerà, al massimo, a fare beneficenza. E se sceglie bene può perfino trarne un beneficio fiscale oltre che pubblica ammirazione.
Il costo della politica non è solo una tematica interessante su cui disquisire sui blog dove peraltro il livello culturale è medio alto, ma un fatto che interessa da vicino tutti i cittadini indistintamente perché tutti sono chiamati a sostenerlo. Dobbiamo documentare con tanto di codice fiscale ogni incasso (dal bonifico postale all’assegno bancario) e se serve a combattere l’evasione fiscale ben venga, ma allo stesso tempo dovrebbero essere disponibili presso tutti gli Enti Pubblici e i relativi sportelli on line, i registri e i rapporti del costo della politica. Tutti dovrebbero poterne prendere visione liberamente e in qualsiasi momento. Far di conto non è cosa complicata, in fondo, se vi è chiarezza.

La bandiera della laicità

Ieri ero a Roma e pensavo: vorrei esserci domani.

Stamattina mi sono detta: scrivo del Gay Pride, di quel che significa per me, di quanto sia fondamentale, essenziale, vitale che questo Paese (il mio, il nostro) prenda coscienza di quel valore assoluto, irrinunciabile che è la laicità.

Poi ho constatato che qualcuno lo aveva già fatto, per me, per noi, e assai bene, descrivendo quei passaggi fondamentali che dal petto confluiscono nel cervello dove esplodono per non implodere.


Boy Love Day


Dicono che in Italia non sarà festeggiato. Dicono che sarà, quantomeno, più difficile perché i siti sono stati oscurati. Dicono...

La bionda dell'Est nel navigatore



La bionda dell’est, raggomitolata all’interno del navigatore, mi odia. Passi che, con una sei marce cabrio nuova di zecca fra le mani, ammonisce ogni timido tentativo di oltrepassare i 130 km/h con un’allerta che sa di allarme antivirus, decide di vendicarsi dell’abbandono alla velocità sul rettilineo, stranamente libero, di Caianello e mi indica un’improbabile uscita. So che non è quella che prendo di solito, ma decido di fidarmi. Sbaglio. Mi ritrovo immersa nello stereotipo partenopeo che urla dalle televisioni e dai giornali già da molti anni, ma adesso con quell’insistenza che la ciclicità mediatica scatena. Lungo tutta la rampa d’ingresso c’è pieno di spazzatura buttata con malagrazia naturale. Ma come cazzo viene in mente a uno/una di portarsi dietro da casa il sacchetto di spazzatura e poi gettarlo per strada? Cioè, mi domando: cosa pensa?
La bionda in miniatura non è soddisfatta e decide di regalarmi un tour nei quartieri spagnoli. Ora, c’avete una vaga idea di che cosa significhi girare per i quartieri spagnoli con un’Audi Cabrio nuova di zecca? Ho surfato fra moto e motorini che giungevano da tutte le direzioni (uno è uscito da una casa!), cercando di evitare ragazzini che si spostavano solo per venerazione assoluta nei confronti della dea automobile, incurante della perplessità che, inevitabilmente, mi colora l’espressione ogni volta che vedo quella Napoli così diversa da quell’altra tutta fighetta che in genere frequento. Quando finalmente io e la novella turbodiesel riusciamo ad arrivare (illese per miracolo di San Gennaro) in Piazza dei Martiri, ho la fortuna sfacciata di trovare un parcheggio. Sto per scendere quando mi si avvicina un uomo anziano e mi dice: Stateve accuort dottorè, là sotto (mi indica una stradina che parte dalla Piazza) ci sta nu garage, sient a me, valla a mettere là. Codarda come Garibaldi, obbedisco senza commentare, così mi tocca ancora un po’ di slalom fra passanti, moto e perfino qualche auto parcheggiata sul marciapiede, che comporta manovre improbabili dopo tre ore e mezza di guida e circa venti minuti di ritardo, oltre al faticosissimo ritorno su tacchi che poco si sposano con la pavimentazione.

***

Quella di Piedigrotta è “la festa”.
Guardo vecchie cartoline, fotografie in bianco e nero che immortalano i tradizionali carri e fuochi, gli attori, i cantanti, gli artisti che hanno dipinto Napoli e l’Italia agli occhi del mondo intero. Mi sento dentro una certa emozione, quasi commozione, ad avere fra le mani il progetto di un pezzo di storia di Napoli e di vederlo risorgere dopo quarant'anni.

venerdì 15 giugno 2007

E invece no!

Angelo non ci sta. Legge, commenta, si agita, accende il pc e cambia il domani di Roberto e (E)Leonora. Qui.

martedì 12 giugno 2007

Dalla rivincita di Leonora alla forza della rete.

Quando ho scritto l’ E.d.S. ---02--- non avevo ancora immaginato l’ipotesi di un giorno dopo. Avevo racchiuso la storia in un singolo pensiero, nella ricerca della percezione maschile di quello che, tutto sommato, è uno stereotipo: un amico e un’amica che finiscono a letto. Attorno a questo pensiero se ne sono sviluppati altri, individuati nel silenzio fra le parole di Bhuidhe che mi hanno fatto ripensare all’incapacità di sostenere il silenzio dell’altro, alla immediata spinta a riempirlo di contenuti che non sono null’altro che il nostro pensiero su ciò che l’altro pensa. Noi, sempre noi stessi al centro di tutto. Non è un dramma, ma, temo, ciò che ne soffre è la capacità di parlarsi chiaramente, di fare domande precise e ottenere risposte altrettanto precise. E invece preferiamo interpretarci. Peccato! Ne perdiamo in spontaneità e sincerità.

Roberto era solo uno strumento nelle mie mani, la trasposizione di un pensiero, di ciò che io pensavo avrebbe potuto pensare un uomo come lui in una situazione come quella descritta. Poi ho domandato: come sarà domani? Dandapit l’ha immaginato così. Bella dimostrazione di forza femminile. Lei non può restare anonimamente “lei”. Deve avere un nome: Leonora. Deve uscire a testa alta dalla storia. Non vi è spazio per l’amore nel loro domani.

È bello il seguito del racconto scritto da Dandapit, il farsi guidare dal “conosciuto”. Ma a questo punto mi sono posta un’altra domanda: che fine ha fatto l’amore libero? quello che si fa e basta. Per puro caso, giungendo al blog di una vecchia amica, sono approdata nel blog di Carlo poeta che ho avuto modo di conoscere un bel po’ di anni fa e poi perso di vista. Il suo post Liberiamo il libero amore dà, inconsapevolmente, una risposta: “…Il fatto che gli utopisti mettessero il libero amore nel paniere con l’abbondanza di beni materiali (il paese di Cuccagna) secondo me dimostra che erano utopisti maschilisti, e il loro discorso assomigliava a un pane e figa per tutti. Ci sono stati anche utopisti più seri, forse, che hanno previsto un libero amore anche femminile. Però ancora in modo molto materiale, carnale, mentre l’amore è un cortocircuito di carne e spirito – le due cose insieme, sempre. A ogni amore partecipano i cieli, come scrissi in una poesia molti anni fa. Ma il problema è un altro: è che il libero amore, proprio in quanto libero, con l’utopia fa a pugni, e dunque inquadrarlo nel pericoloso schema dell’utopia è da mentecatti…” (vale la pena fare un giro fra i suoi scritti e le sue poesie).

lunedì 11 giugno 2007

Nel taccuino degli ultimi cinque giorni

Il convegno è finito. È andato bene. Bene la conferenza stampa. Bene le interviste. Bene il faccia a faccia fra le istituzioni e gli operatori del comparto zootecnico. I tecnici, veloci, consapevoli dei loro gesti, ripetuti più e più volte, smontano pannelli e impianto audio-visivo. Gli auditori, non tantissimi perché si tratta di un incontro tecnico a invito, stringono mani e strappano qualche promessa ai politici presenti. La voglia di fumare è insistente dopo tre ore. Stringo poche mani, quelle di chi si ricorderà la mia faccia anche domani. Scendo le scale della vecchia corte restaurata. Finalmente aria. Finalmente sola con le mie Camel. Ne tirò fuori una e la porto alle labbra. Arriva il politico di spicco del convegno. Viene verso di me con la mano protesa in avanti. Mi dice grazie. Mentre cerco di capire quanto vale un grazie leghista accenno un sorriso e ricambio la stretta di mano. Poi continuo ciò che avevo iniziato: cerco l’accendino nella borsa. Lui mi dice che è d’accordo con me circa il ruolo del trade. Allude al mio intervento. Scambiamo qualche parola sul sistema di controllo e qualità dei prodotti italiani. Intanto porto all’altezza della bocca l’accendino e accendo la sigaretta. Lui mi dice: Vedo che nessuno è perfetto! Impiego qualche secondo per capire. Poi seguo la traiettoria del suo sguardo e giungo fino all’accendino bianco con la scritta rossa: Le donne DS riaccendono la politica. Sorrido, e faccio presente che è il regalo di una cara amica, e che - comunque - il mio pensiero politico è sicuramente più di sinistra che di destra. Mi strizza l’occhio e mi dice: Ognuno ha i suoi peccati, ma non cambia per nulla quello che penso di lei. Complimenti.
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Oltrepasso le mura di Montagnana e mi sento immersa in un’atmosfera di altri tempi. Sagre e fiabe in piazza. Aria d’estate. Calma. Avverto l'effetto della calma respirata. Giunge dentro come ospite sconosciuta. L’hotel è caldo ed accogliente. I proprietari sono sorridenti e il loro accento veneto solletica quel piacere che da sempre mi danno i dialetti e le parlate. Calma. Entra dentro con insistenza e smorza quella naturale freneticità un po’ schizofrenica che talvolta avverto in me. Le abbiamo riservato una bella stanza. Grazie, faccio io, un po’ sorpresa da un’accoglienza che va oltre la naturale cortesia. È familiarità quella che mi arriva addosso?
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Ma tu che vuoi? mi domanda lui.
Non lo so. Forse quando l'avrò fra le mani saprò riconoscerlo.
Stai dicendo una stronzata, lo sai?
Sì...ma oggi non ho voglia di rispondere.
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Sole e polvere. Polvere addosso. Polvere in bocca. Non lo ricordavo più, anche se le sensazioni sono rimaste tali e quali, custodite dentro, identiche, attuali. Da quanto tempo non andavo in una pista di motocross? Da troppi anni. Da allora.
Sento il rombo dei motori e ho netta la sensazione del corpo teso in avanti, con le mani salde sul manubrio. La moto salta sugli ostacoli, sui panettoni… unico pensiero: Devo restare in sella. È difficile mentre sei su e la forza di gravita tira giù la moto dal culo.
Devo restare in sella. Devo tenerla.
Da quanto non ci pensavo? Forse solo da ieri. Forse non ci ho più pensato da allora. Poi Michele è lì accanto a me. Michele chi? “Tuttomoto”. Ah, certo che lo conosco. Tutti conoscevano Michele, anche chi lo conosceva solo come “Tuttomoto”. Era bello Michele e parlava con un accento che conservava la esse trascinata della sua esperienza bolognese, a casa della sorella di sua madre. Era bastato un anno per renderlo “uno del nord”, quindi più ambito dei ragazzi nostrani, secondo quelle logiche di paese che attribuivano a tutto ciò che veniva da fuori un sapore diverso. E aveva passioni non comuni fra noi banali adolescenti: la filatelia e il motocross. Fu contattato da una società per correre e fare sul serio. Ma la sua notorietà fra tutti i ragazzi faceva comodo anche alla mafia di paese che usciva sempre di più dai feudi e si versava sulle strade. Ne vendette parecchia di eroina fino a restare incastrato pure lui. Un giorno eravamo sulle piste a correre, l’altro giorno mi faceva provare la sua moto e l’altro ancora non lo riconoscevo più. Cadavere buttato in mezzo alla strada come spazzatura. Quella spazzatura che si tende a ripulire parlando di un morto. Voglio scrivere di Michele in Quelli della mia specie. Forse lo farò. Forse no.
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Ma perché tieni un blog? mi domanda lui.
Mi piace. Mi dà modo di sfogarmi e di riordinare pensieri che resterebbero in spazi senza tempo. Certe volte ripenso a mio nonno, alla perdita della memoria. Mi piace scrivere quello che mi viene per la testa.
Sì ma perché un blog? basterebbe un diario, per questo.
È che su un blog ti rispondono, hai il parere degli altri.
Quindi scrivi per avere commenti?
No.
Allora perché un blog?
Perché provo a fare la rete, perché voglio esserci anch’io.
Quindi tieni un blog perché pensi di saper fare la rete?
Accidenti, no! Io…
Ok, ho capito, non lo sai perché tieni un blog.
Lo odio. Certo che lo so perché tengo un blog (?).
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Albertone è enorme. Arriva con un furgone e una donna armadio che gli fa da compagna, da fonico, tecnico e allestitore. Sale sul palco e le assi di legno si sollevano. Temo che non tenga. Lui ironizza. Lui e la donna armadio tirano fuori da furgone due casse acustiche, un microfono e qualche faretto di quelli che si attaccano alle americane. Ma non ci sono americane. Rinuncia alle luci. Prova l’audio e un fischio acuto investe i timpani. Sistema alla meglio il tutto, armeggiando col mixer. La donna armadio va a bere una cocacola al bar vicino. Lui suda sotto il sole che scotta come in una giornata di luglio. Mette su il tappeto musicale che salta senza un filo logico da Il pescatore a Mi sono innamorato di te. Le canzoni si intrecciano. Mentre l’improbabile duetto De Andrè-Tenco procede gracchiando, Albertone sfida il caldo e pone sul capo un fazzoletto di lana verde e inizia il suo spettacolo. Nessuno ride. Non fa ridere. Procede incurante di non avere pubblico. The show must go on, anche quando non è uno show ma una ridicola accozzaglia di vecchie battute recitate in veneto.
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Che c’è?
Che significa “che c’è?”
Significa “che c’è, cos’hai?”
Troppo generico. Che vuoi sapere? Definisci la domanda e ti darò una risposta.
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Sei ore di quasi silenzio. Come si fa a non riempire il silenzio di chi ti sta accanto per sei ore con pensieri che sono – in fondo – esclusivamente tuoi? Non è facile vivere il silenzio. Troppo spesso siamo colti dalla frenesia di riempirlo ad ogni costo.
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Sosta in Autogrill. Toilette appena pulita. Profumo di pulito, non capita sovente. La signora sta ancora lavando per terra. Sbaglio ed entro nel bagno dei maschi. Ritorno fuori ridendo. La signora mi fa: Succede sempre! L'altro giorno una donna anziana entrando ha trovato due o tre uomini che stavano facendo la pipì in piedi, lì davanti. E' uscita sconvolta e ha fatto il segno della croce.
Chissà se è peccato!

mercoledì 6 giugno 2007

Di treni, viaggi, buona sanità e saluti.

(Ricordo ispirato dal post di Laura, successivamente linkato)
Viaggio raramente in treno, quasi sempre in aereo e talvolta in automobile. In città uso le gambe, dettaglio che poco c’entra ma tanto fa. Il mese scorso mi è capitato di prendere il treno. Il mio scompartimento, nel tragitto, si è popolato di tre signore di mezza età. Tutte e tre silenziose, educate, composte.
La signora con l’abito leggero e l’acconciatura un poco trascurata sfogliava Gente. Di tanto in tanto ritornava sulle pagine precedenti.
La signora dai capelli rossi, pantaloni neri e canotta in tinta con cuciture dorate, sfoggiava una vistosa collana e sfogliava, con poca voglia, le pagine di Donna D passatole dal marito che, nel corridoio, leggeva il suo quotidiano imprecando di tanto in tanto e manifestando il suo desiderio di fumare.
Infine, la signora in jeans-gioiello vistosamente firmati e t-shirt verde acido con firma dorata, inforcando gli occhiali, pure essi griffati, prese a sfogliare l’Espresso.
Portatile acceso e cartella di documenti alla mano, io stavo completando una relazione.
Mi cade un foglio. Mi chino. Si chinano, istintivamente, anche la signora rossa e la signora in jeans-gioiello. Dico: Grazie. Scatta il pulsante della comunicazione generale. Prego!, Sta lavorando?, Vuole qualcosa da leggere?, Dove sta andando?, Com’era il tempo a …?, È di…? Ah, io ci trascorro le vacanze… In men che non si dica le due signore, la rossa e quella in jeans-gioiello, sono lì a raccontarsi dei loro problemi di salute. Problemi gravissimi che a una me taciturna dietro il monitor procuravano una certa sensazione di vertigine: un cancro con tanto di programma di inizio terapia e un’insufficienza renale con tanto di dialisi. Le due signore, con frequenza periodica, si recano a Milano in appositi Centri medici, e non pagano un euro. Vengono rimborsate anche del biglietto del treno, del vitto e dell’alloggio. Si confrontano sui sistemi sanitari illustrandone aspetti positivi che fa piacere ascoltare: medici preparati e umani, infermieri gentili ed efficienti. La signora rossa, quasi sussurrando, si rivolge a me: io ho lavorato tutta la vita, sa? ho fatto la parrucchiera dall’età di quattordici anni. Adesso avrei dovuto godermela la vita, ma… Trovo sempre qualche difficoltà a confortare chi non conosco e mi sono limitata a un sorriso e a un banalissimo: D’altro canto, pensi se non potesse essere curata!
A questo punto la signora dalla piega trascurata entra in scena in maniera divertente e inaspettata. Con le mani afferra l’abito e lo tira su fino a scoprire le ginocchia e buona parte delle cosce. Dalle rotule partono due cicatrici speculari che arrivano fino a mezza coscia. Dice: Anche io ho avuto i miei problemi!
Quello che fino a pochi istanti prima era stato un confronto a due, accoglie, con leggera piacevolezza, la terza attrice di questo reality della buona sanità.
Esiste eccome. Jane ne parlava qui. Laura ne parla qui. E, francamente, sono contenta di abitare in Italia, dove non potrebbe accadere questo.

A proposito di viaggi, domani parto per altri cinque giorni. Questa volta vado in Veneto. A presto.

domenica 3 giugno 2007

Non ci resta che piangere.




Probabilmente qualcuno già è a conoscenza della nuova tendenza che, arrivata dal Giappone, ha attecchito anche in Europa. Mi riferisco ai Crying Clubs, pub in cui si va a versare liberamente le proprie lacrime represse.

Sull’argomento:
Etimologia della parola piangere
No piangi? No party!
Crying Clubs: piangere in pubblico è diventata una tendenza
Alla ricerca del pianto perduto: dipinti e lacrime di James Elkins
La tristezza del pianto

Naturalmente non possono mancare i consigli e i manuali e perciò:

Istruzioni per piangere
Miniguida per piangere senza farlo vedere troppo

A parte il fatto – mio personale e perciò sorvolabile – che il pianto sia un momento intimo di liberazione e riflessione, mi chiedo se sia veramente positivo governare (sempre che ci si riesca realmente) quella che dovrebbe essere una valvola di sfogo spontanea e non solo la scientifica liberazione di cortisolo e endorfine.

sabato 2 giugno 2007

E.d.S. --- 02 ---


Roberto inspira profondamente e trattiene il più a lungo possibile l’ossigeno dentro i polmoni fino a sentire pulsare le tempie. Poi caccia fuori un lungo respiro nel quale ingabbia tutti i suoi pensieri più recenti. Pensieri che non hanno nulla a che fare con lo scorrere ordinato della sua vita senza troppe pretese, racchiusa nella convinzione che ciò che siamo non dipende da noi ma da un disegno più ampio nel quale capitiamo come attori casuali incapaci di quella perfezione divina che non è concessa a nessun uomo. Inspira ancora e questa volta tira una profonda boccata di Marlboro. La luna si specchia nel mare. Quante volte aveva sognato una scena così romantica? Quante volte aveva desiderato di poterla condividere con una donna? Ma non lei. Lei non ha nulla a che vedere coi suoi sogni, coi suoi progetti. A quasi quarant’anni, con un passato cancellato con fatica e un disegno preciso per il futuro, senza pretese ma con assiomi definiti dalla natura stessa, Roberto sa che non è lei la donna che lo riscatterà, che gli darà ciò che gli hanno insegnato ad amare: il matrimonio e dei figli.
Lei è un errore, una tentazione alla quale non ha saputo resistere. La sua pelle liscia, la sua corazza caduta e la sua fragilità emersa nel desiderio fisico. Non ha saputo resistere alla sua voglia di essere abbracciata. Non ha saputo resistere al desiderio di lei che sentiva crescere dalle viscere. Espira e s’illude di buttar fuori anche quei pensieri con il fumo che forma una nuvola davanti ai suoi occhi. Pensieri che non avrebbero dovuto essere suoi. E ora come dirle che è tutto iniziato e finito quella stessa notte? Cosa vuole lei? Se lo domanda quasi per dovere. In fondo è già convinto di non poter essere lui a darle ciò che vuole prima ancora di sapere cos’è. Si annida in lui la consapevolezza della precarietà di pensieri che non gli sarebbero appartenuti in contesti più famigliari, nel tentativo di perdonarsi qualcosa per cui, in fondo, si sente orgoglioso come ogni uomo. Scaccia i pensieri di orgoglio e ricerca pensieri più elevati, degni di lui, di quel nuovo lui così difficile da raggiungere, quel lui che ha conquistato con pazienza la fiducia e l’amicizia di lei. Che sarà della loro amicizia? Roberto non può fare a meno di pensarci. Lei si gira nel letto. La luce della luna entra nella stanza e disegna ombre blu sul suo volto. Non è sicuro che stia dormendo davvero, ma se ne sta immobile. Forse ha intuito i suoi pensieri. Forse anche lei si sta domandando cosa succederà domani.

Il Sud che funziona


Già in passato scrissi dei "ragazzi del vuoto pneumatico" a proposito della rivoluzione grammaticale, assumendo una posizione che inequivocabilmente tende a riconoscere alle nuove generazioni una identità che va ben oltre il luogo comune che - lo dico forte e chiaro – non solo non condivido ma trovo vecchio e poco coerente con quanto la nostra generazione (quella che, ammettiamolo, ha delegato tutto: la politica, il sociale, la cultura…) ha realmente fatto, anzi non ha fatto, per i giovani.

In questi giorni sono stata a Crotone, dove, nell’ambito di un Piano di Comunicazione molto ampio, ho avuto un confronto diretto con bambini e ragazzi sulle tematiche ambientali.

È fatto di bambini e ragazzi in grado di analizzare in profondità tematiche importanti come l’ambiente, la mafia, la crescita culturale, la scuola… il Sud che funziona. E funziona bene, con scuole fatiscenti in cui gli insegnanti lavorano con studenti e genitori per trasformare le pareti senza intonaco in vere e proprie mostre di lavori stupendi realizzati riciclando tutto il possibile: i classici quotidiani, le calze smesse, le lattine, i tappi, le bottiglie di plastica e di vetro, le scarpe … o con scuole modernissime che hanno laboratori (realmente utilizzati) di video produzione, di montaggio video-audio… ma soprattutto con bambini e ragazzi che sono stanchi di essere racchiusi in un contenitore che li vuole figli senza altro futuro di una realtà di mafia.
Lo spettacolo a cui ho assistito il 31 maggio mi è entrato dentro con prepotenza: “Mio Sud”, cortometraggio realizzato da ragazzi dai quindici ai diciassette anni del “Pertini”, già vincitore di un premio nazionale, non è solo la testimonianza di una realtà indagata in profondità ma è un urlo di speranza dei giovani calabresi che si impone sulle strutture mentali elaborate da preconcetti e realtà che lasciano l’amaro in bocca; il Recital dei bambini della scuola elementare di Cutro, spinge, divertendo, alla riflessione e alla presa visione di quanto noi adulti abbiamo negato e stiamo negando a questa nuova generazione che siamo solo buoni a criticare; le poesie bramano risposte e fanno emergere la speranza di affrontare un futuro diverso da quello che si vuole, inevitabilmente, già scritto…
È questo Sud che funziona, che mi porto nel cuore.


Parole per sé



Anche se l'ho un po' trascurato, quel Blog continua a esistere e a richiedere la partecipazione di tutti.


Sono state pubblicate altre due storie, una inviata da Jane e una da Alex.